Lo stato dell’arte in Italia
Il Paese ha una conformazione territoriale idonea alla produzione di idrogeno. Scarseggiano, invece, le infrastrutture. Le imprese che fanno già parte della filiera riescono a convertire facil
Il Paese ha una conformazione territoriale idonea alla produzione di idrogeno. Scarseggiano, invece, le infrastrutture. Le imprese che fanno già parte della filiera riescono a convertire facilmente le proprie attività e le proprie competenze. Spesso, però, riscontrano difficoltà nella gestione di questa nuova tecnologia, a volte ancora poco conosciuta. Questi alcuni risultati emersi dall’indagine della LIUC Business School
Se da un lato l’Italia ha tutte le carte in regola per giocare la partita dell’idrogeno rispetto al resto del mondo, dall’altro ci sono alcuni aspetti su cui bisogna ancora lavorare parecchio. Al Paese si riconosce una conformazione territoriale particolarmente favorevole alla produzione di idrogeno e le imprese che fanno già parte della filiera riescono a convertire facilmente il proprio business e le proprie competenze. Sotto il profilo delle infrastrutture, invece, l’Italia è in difficoltà. Scarseggiano e non ci sono ancora, al momento, realtà ad uno stato particolarmente avanzato verso l’utilizzo o produzione di questa tecnologia. Sono alcuni dei risultati emersi dall’indagine svolta dal Centro sull’Innovazione Tecnologica e l’Economia Circolare della LIUC Business School di Castellanza.
Uno studio svolto per analizzare lo stato dell’arte dell’idrogeno (verde) a livello nazionale, assecondando la richiesta di un’impresa varesina che aveva bisogno di ottenere una visione più chiara sulla situazione prima di intraprendere questo percorso: la Interfluid di Gallarate, system integrator a livello internazionale in tutti i processi dell’automazione industriale per l’oleodinamica, la pneumatica e l’alta pressione. “Uno dei settori in cui l’applicazione dell’idrogeno verde è più immediata è quello della mobilità, sia aeroportuale, sia logistica. Specialmente quella che riguarda i veicoli più pesanti e i carri elevatori – afferma Gloria Puliga, ricercatrice LIUC –. I punti di forza sono indubbiamente il fatto che parliamo di un materiale sostenibile e che, a differenza dell’elettrico, essendo un vettore, può essere stoccato per lungo tempo in grandi quantità. Limitata, invece, l’applicabilità sui veicoli leggeri dove l’elettrico è sicuramente più avanti e ci sono maggiori infrastrutture e beni complementari”. L’obiettivo della ricerca è stato quello di capire se fosse possibile applicare le competenze di Interfluid in un nuovo tipo di business. Quello dell’idrogeno.
“In alcuni contesti, a livello di skill, potrebbero non esserci grandi investimenti che gravano sulle imprese in quanto è possibile sfruttare competenze già esistenti – continua Puliga –. Dal punto di vista tecnico, invece, è importante capire se per una realtà l’investimento sia fattibile e sostenibile”. Lo studio ha dato un quadro esaustivo del Paese in questo contesto. È emerso come, già da tempo, l’Italia stesse investendo in maniera importante in questa tecnologia. Rispetto al quadro internazionale, anche secondo alcuni output arrivati dai centri di ricerca e dalle Università di Milano, Torino e Reggio Calabria, “il nostro Paese si posiziona ad un buon punto della classifica rispetto al resto del mondo”. Un altro fattore che gioca a favore dell’Italia è sicuramente la conformazione territoriale. Al Sud il clima è mite e soleggiato e questo aiuta particolarmente nella produzione di idrogeno verde. E poi, ovunque, sono presenti centri di ricerca o Università che portano avanti studi scientifici. “Il nostro territorio ha indubbiamente delle forze – incalza Puliga – e può giocarsi la sua partita a livello mondiale”.
Tra gli aspetti su cui bisogna ancora lavorare a lungo c’è sicuramente quello delle infrastrutture
Tra gli aspetti su cui bisogna ancora lavorare a lungo c’è sicuramente quello delle infrastrutture. C’è anche la difficoltà nel trattare un elemento del tutto nuovo, spesso ancora poco conosciuto e con specificità tecniche particolari. Chi decide di usarlo deve conoscere ogni suo aspetto. Così come chi sceglie di investire in questo ambito. “Esiste una forte asimmetria informativa tra investitori e produttori di tecnologia che può e deve essere ridotta mediante momenti di confronto e trasferimento tecnologico e di conoscenza – precisa Puliga –. Il nostro obiettivo è quello di estendere il caso di Interfluid ad altre realtà per creare una rete solida. Siamo ancora in una fase embrionale”. L’ateneo, anche insieme al lavoro che svolge il Green Transition Hub, vuole diffondere linee guida sulle aree su cui è possibile investire e sulle competenze interne che le aziende possono sfruttare a loro favore.
“È ampia la profondità della ricerca scientifica e lo sviluppo riguarda sia grandi realtà sia Pmi”. Nonostante questo, i ricercatori della LIUC, invitano le aziende “ad essere molto attente nel navigare questa fase e comprendere le competenze rilevanti e gli asset complementari necessari”. Servono skill tecniche ma anche di gestione della transizione. Interfluid ha già maturato la convinzione che il primo passo verso il business dell’idrogeno deve essere fatto investendo nel capitale umano: “Per spingere maggiormente la transizione verso l’idrogeno – dichiarano dall’azienda – è necessario semplificare e rendere più snello l’iter di approvazione degli impianti, delegando l’analisi della sicurezza ad un tecnico abilitato, incentivando in questo modo la capillarità delle realizzazioni di impianti di distribuzione di idrogeno sul territorio nazionale, che ad oggi risultano praticamente inesistenti”.