La geografia dell’export varesino
Negli ultimi 8 anni è successo di tutto nel mondo. Stravolgimenti, però, che “nel momento in cui scriviamo” poco o nulla hanno inciso sulla “top ten” delle desti
Negli ultimi 8 anni è successo di tutto nel mondo. Stravolgimenti, però, che “nel momento in cui scriviamo” poco o nulla hanno inciso sulla “top ten” delle destinazioni delle esportazioni made in Varese. Germania, Francia e Usa rimangono i nostri primi partner commerciali. La Cina è salda all’ottavo posto. Mentre “c’era una volta” la Russia, parte di un passato ormai lontano
‘‘Nel momento in cui scriviamo…” Il più classico degli incipit giornalistici ha il sapore spesso del “c’era una volta” delle fiabe. Come un argine che cerca di orientare subito il lettore su uno scenario preciso. C’era una volta, come dire: siamo nella fantasia. Nel momento in cui scriviamo, come dire: da qui, alla stampa, alla distribuzione del magazine potrebbe essere avvenuto di tutto e di più e, quindi, non siamo sicuri che quando leggerete questo articolo la realtà sarà ancora quella qui descritta. Ci proviamo comunque. E, dunque, di fronte alla domanda di come stiano andando le cose per le esportazioni dell’industria varesina in uno scenario geopolitico sempre più conflittuale e complesso, cercheremo di ancorarci alle certezze delle dinamiche storiche che garantiscono un quadro più attendibile del racconto congiunturale trimestre su trimestre. Partiamo, però, proprio da qui: dall’ultimo dato disponibile (altra frase furbescamente prudente, che sta per “speriamo sia ancora così quando appoggeremo la penna e daremo alle stampe la rivista”). L’ultima rilevazione sull’export della provincia di Varese è quella effettuata dal Centro Studi di Confindustria Varese sui primi 9 mesi del 2023, da gennaio a settembre. Il dato era positivo, con un incremento delle esportazioni del +2,4% rispetto allo stesso periodo del 2022. Nonostante tutto la manifattura varesina, dunque, è riuscita ad essere fedele a se stessa e al suo tradizionale punto di forza. Il commercio estero, appunto, che da sempre tiene in piedi le sorti del sistema produttivo all’ombra delle Prealpi, anche nei momenti di crisi più profonda.
L’economia varesina, d’altronde, più di altre ha legato le proprie sorti alla capacità di esportazione delle sue imprese. Lo dimostra il fatto che, come rilevato da Prometeia su dati 2022, il Varesotto può contare su un export che vale il 43,6% del valore aggiunto prodotto. Basti pensare che la media nazionale è pari al 33,1%. Per valori assoluti Varese è saldamente piazzata nelle prime 20 province esportatrici d’Italia. Posizione confermata anche nel 2022. Da qui in avanti nella nostra analisi sull’internazionalizzazione dell’economia varesina è questo l’anno di riferimento, l’ultimo di cui abbiamo i dati relativi ad un intero ciclo di 12 mesi. Nel momento in cui scriviamo, s’intende. E così, sempre dati del Centro Studi di Confindustria Varese alla mano, è possibile mettere il punto sulla prima certezza: negli ultimi 14 anni il primo partner commerciali, sia per l’import, sia per l’export è sempre stato la Germania. Paese che oggi rappresenta da solo il 13% delle vendite all’estero dell’industria varesina, per un valore di oltre 1,5 miliardi di euro nel 2022. Ecco perché gli occhi degli imprenditori sono spesso puntati verso Berlino. Ed ecco perché nella analisi e nelle proiezioni l’ultimo dato riguardante la produzione industriale tedesca del -4,8% a novembre 2023 è la prima fonte di preoccupazione e di incertezza nel cammino di crescita della manifattura locale. Una recessione in Germania rischia di contagiare l’industria varesina. Anche solo uno starnuto crea attenzione.
L’economia varesina più di altre ha legato le proprie sorti alla capacità di esportazione delle proprie imprese. Le vendite all’estero valgono il 43,6% del valore aggiunto prodotto. Varese è tra le prime 20 province esportatrici d’Italia
Ma è un po’ tutta la classifica delle destinazioni top ten dell’export varesino a non essere cambiata di molto negli ultimi 8 anni. Un periodo nel quale è successo di tutto. Pandemia, guerre, stravolgimenti geopolitici, Brexit non hanno, però, intaccato molto i nostri flussi di vendite all’estero. Nel 2014 Germania e Francia erano i nostri principali mercati di sbocco e tali si confermano secondo i dati del 2022. La prima piazza di destinazione extra-Ue rimane quella degli Stati Uniti (terzi nella graduatoria generale). Un Paese nel quale il made in Varese si continua a rafforzare. Basta guardare al +40% messo a segno tra il 2021 e il 2022, superando quota 1 miliardo (il doppio del 2014). Questo il podio delle esportazioni varesine. Ma anche dietro ci sono sempre i soliti: Regno Unito (che regge in quarta posizione nonostante la Brexit), Spagna (che scavalca il mercato elvetico al quinto posto), Svizzera (che perde appunto una posizione). E poi ancora: Polonia, Cina, Paesi Bassi. Anche loro presenti nei primi 10 partner commerciali varesini da 8 anni a questa parte, cambiano solo alcune posizioni. Unica differenza l’uscita della Turchia e l’entrata del Belgio (anche se, a dire il vero, sempre nel momento in cui scriviamo, dobbiamo registrare, nel terzo trimestre 2023, il controsorpasso di Ankara).
Quasi scomparsa dai radar la Russia, che a fine 2022 valeva per l’export varesino 98 milioni di euro, contro i 156 milioni del 2021 (-37,1%)
E per quanto riguarda il resto del mondo? Il recente vertice Italia-Africa organizzato dal Governo per la presentazione del Piano Mattei ha permesso di puntare i riflettori anche sui rapporti che l’industria varesina ha con quel continente. Che, per la verità, rappresenta ancora un mercato di nicchia dal valore, sempre nel 2022, di 358,4 milioni. Più o meno i livelli di vendite nel solo mercato dei Paesi Bassi, nono partner commerciale. Il 63,4% delle esportazioni varesine in Africa, inoltre, si concentra nel Nord del Sahara. Con i primi due mercati di sbocco rappresentati da Tunisia (87 milioni) ed Egitto (68 milioni). Gradino più basso del podio il Sud Africa. Quasi scomparsa dai radar la Russia, che a fine 2022 valeva per l’export varesino 98 milioni di euro, contro i 156 milioni del 2021 (-37,1%). Effetto sanzioni, ovviamente. E pensare che nel 2019, in un’indagine sull’internazionalizzazione del made in Italy, il primo Paese indicato dalle imprese lombarde come il più interessante per lo sviluppo di futuri rapporti commerciali era proprio la Russia. Tutta un’altra realtà che ci riporta allo scenario del “c’era una volta…”
L’investimento in Vietnam della Molina
“Abbiamo aperto a dicembre un nuovo stabilimento produttivo in Vietnam per seguire la filiera produttiva dei nostri principali clienti statunitensi”. Così dopo essersi insediata prima a Taiwan (nel 2015) e poi in Cina (nel 2019) ora la A. Molina & C. Spa ha, in Oriente, una terza sede aperta nell’ambito della joint venture asiatica M & H Innovation, di cui detiene la maggioranza. La recente storia dell’azienda di Cairate famosa per la produzione, sin dal 1890, di imbottiture in piume d’oca e, più di recente, in poliestere, è l’esempio lampante di come le dinamiche geopolitiche possano incidere sulle scelte strategiche anche di quelle imprese italiane definite “multinazionali tascabili”.
Certo, l’inaugurazione dei nuovi capannoni vietnamiti di Haiphong è motivata anche, come racconta il Presidente e Amministratore Delegato dell’azienda, Agostino Molina, “dalla dinamica di un costo del lavoro più basso rispetto a quello crescente cinese e dalla necessità di aumentare la produzione per far fronte ad una domanda asiatica in forte espansione”. Ma non solo: “Dietro questa scelta c’è a anche la consapevolezza e la richiesta dei nostri clienti americani di creare una sorta di backup industriale qualora le tensioni tra Cina e Taiwan arrivassero fino all’ipotesi, estrema certo, ma non così irreale, di un conflitto”. L’obiettivo è garantire indipendenza industriale dalla Cina e continuità operativa di fronte a qualsiasi scenario. “In Vietnam realizzeremo 250 tonnellate di prodotto, mentre in tutto il mondo siamo arrivati a quota 2.500”. Imbottiture, quelle della Molina, destinate a capi di abbigliamento per i brand più famosi della moda. E poi ancora: divani, poltrone, cuscini, piumini da letto, guanciali, trapunte, topper. “Ciò che produciamo nei siti che abbiamo in Asia è destinato ai prodotti dei brand americani, europei e cinesi che rimangono in quei mercati”, precisa Molina. “Il mercato europeo e quello americano sono riforniti dalla nostra produzione qui in Italia”. In questa geografia il Vietnam “rappresenta un’ulteriore testa di ponte per la nostra espansione in mercati sempre più interessanti come il Myanmar e il Bangladesh”. Ma lo sguardo dei prossimi investimenti è rivolto anche a Ovest: “Stiamo lavorando all’apertura di uno stabilimento in Nord America”, spoilera Molina. Data prevista per il taglio del nastro: primo trimestre 2025.
Un’altra tappa di un’internazionalizzazione di vecchia data, con la prima joint venture aperta nel 1992 in Siberia e poi una seconda nel 2000 in Brasile. Realtà ancora operative, ma da cui la Molina è uscita. “Anche in questo caso abbiamo dovuto seguire nel tempo la geopolitica”. Nel frattempo, c’è però da fare i conti con un presente dalle crescenti difficoltà logistiche. La crisi del canale di Suez si fa sentire: “Abbiamo 23 container in ritardo di un mese”, racconta Agostino Molina che registra anche un rialzo del costo del noleggio degli stessi: “Nel 2019 eravamo sui livelli di 2.500 euro. Poi l’impennata post-Covid fino a 18.000 euro a container. In seguito, la discesa fino ai 1.000 euro di questo novembre e ora la risalita fino a 3.000 o, per certi operatori, anche 5.000 euro”.
Inaugurazione delle sede vietnamita di M & H Innovation
Per saperne di più
- I tre scenari da tenere sotto controllo
- L’industria guarda con prudenza al futuro
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