Il rischio di una “guerra fredda” tecnologica
Ecco come e perché la gara al primato tecnologico sul fronte del 5G tra Stati Uniti e Cina sta traghettando il mondo verso nuovi equilibri internazionali, con l’Italia in cerca di un ruo
Ecco come e perché la gara al primato tecnologico sul fronte del 5G tra Stati Uniti e Cina sta traghettando il mondo verso nuovi equilibri internazionali, con l’Italia in cerca di un ruolo
‘‘Il 5G è solo un tassello di una partita molto più grande dove la vera tecnologia che cambierà il mondo è quella dei super computer e dell’intelligenza artificiale”. Nella gara per il primato tecnologico tra Stati Uniti e Cina c’è la costruzione di nuovi equilibri internazionali, i cui contorni, secondo Alberto Belladonna, Research Fellow dell’Osservatorio di Geoeconomia dell’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), sono al momento difficilmente prevedibili.
Perché il 5G, più che altre tecnologie che si sono sviluppate in passato, è in grado di influenzare gli equilibri geopolitici internazionali?
Il 5G è oggi centrale nelle attuali discussioni sui futuri sviluppi tecnologici e sull’evoluzione della competizione tra Stati, sia per ragioni geoeconomiche sia per considerazioni correlate alla sicurezza delle reti di telecomunicazione. Il 5G sarà infatti in grado di rivoluzionare in modo profondo l’economia del prossimo futuro, con una dipendenza sempre maggiore di interi settori economici dalla nuova rete. Tutta l’industria, ma anche l’istruzione, la medicina e la difesa saranno investiti da quest’innovazione. Accanto ai benefici vi sono anche evidenti rischi: cittadini, aziende e istituzioni saranno sempre più interconnessi e, di conseguenza, più esposti ad interruzioni di servizio, furto di dati e attacchi cyber che potrebbero rappresentare una minaccia per l’economia e la sicurezza nazionale.
È possibile che il 5G cambi alleanze e appartenenze di campo e di aree di influenza degli Stati?
Consapevoli delle ricadute economiche dell’esclusione di Huawei, ma anche delle più vaste conseguenze geopolitiche di un’eventuale adozione della rete 5G made in China, la maggior parte dei paesi si è mossa in ordine sparso. Posizioni che però possono essere ricomprese con un po’ di approssimazione in tre categorie. La prima include i paesi che hanno seguito gli Stati Uniti nel bando totale di Huawei. Tra questi, Australia e Giappone: due paesi geograficamente vicini alla Cina e forse per questo più interessati a schierarsi sin da subito con le posizioni americane. All’estremità opposta vi sono invece paesi eterogenei tra di loro: dai paesi più vicini a Pechino o per meglio dire più lontani da Washington, come la Russia e l’Iran, a insospettabili “amici” degli Stati Uniti come le Filippine e la Tailandia, più propensi a considerare gli aspetti economici dell’opzione Huawei. Nel mezzo, la categoria più vasta di paesi che mantengono un atteggiamento di cautela nel valutare gli effetti economici, politici e di sicurezza nazionale legati alla scelta di ammettere Huawei nel proprio mercato 5G. In questo contesto l’Unione Europea ha, fino ad ora, adottato un approccio attendista. Data la delicatezza e rilevanza di una scelta definitiva, gli Stati membri stanno adottando un approccio cauto, con sfumature diverse tra di essi. Se la Spagna e il Portogallo sembrano procedere verso l’autorizzazione di componentistica Huawei nelle loro reti nazionali, Francia, Germania, Regno Unito e Italia non hanno ancora optato per una scelta definitiva, sebbene sembrino orientati verso un sì condizionato. Anche se la situazione rimane fluida, come dimostra la recente relazione del Copasir che ha messo in guardia il governo dai rischi di adottare tecnologia cinese nei sistemi di telecomunicazione. In assenza di tecnologia europea, in fondo si tratta, come sostenuto, con una battuta non priva di verità, dal presidente dell’Agicom Cardiani “solo di scegliere se essere spiati dai cinesi o dagli americani”.
Alberto Belladonna, Research Fellow dell’Osservatorio di Geoeconomia dell’Ispi: “Più che sul 5G oramai, sembrerebbe che la guerra fredda sia su tutti i versanti legata alla supremazia tecnologica, che poi determina la supremazia in campo militare, economico e politico”
Tra Usa e Cina oggi chi sta vincendo la partita della supremazia tecnologica?
Da diversi anni oramai è in atto in Cina un ripensamento generale dei fondamenti della propria crescita economica. In particolare si tratta di passare da una crescita basata sull’accumulazione di capitale fisico ad una crescita basata sul capitale umano e tecnologico, che sono poi secondo la teoria economica i veri fattori di crescita di lungo periodo. Questo è l’obiettivo del programma “Made in China 2025” che si propone di rendere la Cina non più la fabbrica del mondo di prodotti di massa a basso prezzo, ma leader in dieci settori chiave dell’industria del futuro. A fronte di dati quantitativi di tutto rispetto, Pechino rimane però ancora indietro nella capacità di generare la cosiddetta “disruptive” innovation, ovvero quel tipo di innovazione che rivoluziona l’industria di riferimento. Il motivo di questo è stato individuato da molti autori in fattori istituzionali, organizzativi e sociali insiti nel sistema cinese che limitano in qualche modo la capacità di creare una “learning economy”, ovvero un’economia dove istituzioni, organizzazioni e contesto sociale favoriscono la diffusione della conoscenza che a sua volta si autoalimenta dallo scambio di informazioni e relazioni che generano nuova innovazione. Il sorpasso cinese sembrerebbe ancora lontano, ma è anche vero che la Cina ha dalla sua parte la legge dei grandi numeri, che poi sono quelli che fanno veramente paura a tutto il mondo.
Siamo passati dalla preoccupazione per la creazione di “stati transnazionali” digitali con milioni di cittadini/utenti come Facebook o Google (ad appannaggio americano) a quelle per produttori di Hardware come Huawei che hanno in mano lo sviluppo del 5G. In questo scenario che ruolo gioca il buon vecchio “Stato Nazione”?
Lo Stato è tornato, si potrebbe dire. Una delle caratteristiche di questa fase della globalizzazione è infatti la crescente agglomerazione. Le dimensioni contano sempre di più e solo grandi gruppi industriali, spesso con il supporto dello Stato come nel caso cinese, sono in grado di garantire economia di scala tali da far rivivere la legge dei vantaggi “assoluti” di Smith.
Il 5G ci sta portando ad una nuova “guerra fredda” tecnologica tra Usa e Cina?
Più che sul 5G oramai, sembrerebbe che la guerra fredda sia su tutti i versanti legata alla supremazia tecnologica, che poi determina la supremazia in campo militare, economico e politico. Il rischio è quello che si vengano a creare nuovi blocchi contrapposti, anche a livello commerciale, con supply chain più corte incentrate prevalentemente su accordi bilaterali o regionali. La conseguenza a livello aggregato è quella di perdita di efficienza, con ricadute generalizzate sui prezzi. Nel lungo periodo, gli scenari sono due: le due potenze collaborano per ridefinire le regole internazionali o si andrà verso una progressiva chiusura in blocchi contrapposti. Una terza opzione forse più fluida potrebbe essere il proseguimento della fase attuale: una fase “tattica” meno dispendiosa sotto il profilo politico, ma molto dispendiosa a livello economico perché genera una continua incertezza, che poi è il male più grande delle imprese.
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