Varese nelle catene globali del valore
Come sta andando l’export varesino? Perché l’internazionalizzazione è un punto di forza dell’economia locale? Quali sono le sfide per la manifattura in un mondo che ca
Come sta andando l’export varesino? Perché l’internazionalizzazione è un punto di forza dell’economia locale? Quali sono le sfide per la manifattura in un mondo che cambia?
Internazionalizzazione. Una parola controcorrente in un mondo affetto da una pandemia che frena ormai da un anno i contatti umani ed economici. Covid-19, protezionismo e tensioni globali hanno avuto nel 2020 un impatto raramente osservato prima sul commercio internazionale. Il WTO – World Trade Organization nelle stime di ottobre, aveva ipotizzato un declino del commercio mondiale in volume intorno al 9% nel 2020. Come stanno reagendo a questi eventi le economie territoriali particolarmente internazionalizzate come quella della provincia di Varese? La caduta del commercio mondiale manifesta i suoi riflessi in particolare su Paesi e zone che, come la nostra provincia, sono fortemente internazionalizzate ed inserite in contesti globali. Varese non fa eccezione. I dati attualmente disponibili segnalano che nei primi nove mesi del 2020 l’export della provincia di Varese ha sfiorato i 6,4 miliardi di euro, in diminuzione del -12,9% rispetto a quanto realizzato nello stesso periodo dell’anno precedente.
Un calo che si aggiunge all’insolito -7,9% annuo già registrato nel 2019. Insomma, nel giro di un biennio si è perso cumulativamente poco meno di un quinto del valore medio all’export degli anni precedenti. E non sono state fatte eccezioni geografiche, si tratta di un calo delle esportazioni che ha riguardato praticamente tutte le principali macro-aree a partire dalla Ue28 (-13,5% nei primi nove mesi del 2020, rispetto allo stesso periodo dell’anno prima) che intercetta quasi il 60% del nostro export, ma anche nei Paesi europei non Ue (-9,7%); Asia orientale (-13,1%); America settentrionale (-5,5%) e tutte le altre aree.
Dal punto di vista dei prodotti si sono registrati cali generalizzati e superiori alla media provinciale nel settore metalmeccanico (-14,7% nei primi nove mesi del 2020, rispetto allo stesso periodo dell’anno prima), che concentra da solo il 57% delle nostre esportazioni. Con punte particolarmente forti nella metallurgia (-28,6%), prodotti in metallo (-17,9%), macchinari (-16,2%), autoveicoli (-21,6%) e negli altri mezzi di trasporto incluso l’aerospazio (-22,8%). Purtroppo, non sono stati da meno neppure il settore tessile e abbigliamento (-17,9%) e il gomma-plastica (-12,8%). Meno negativa la situazione del chimico farmaceutico (-4,6%). Tra i comparti più di nicchia, rispetto al periodo gennaio-settembre 2019, si è registrato un calo anche di alimentari e bevande (-3,1%), legno (-10,5%) e carta e stampa (-10,4%).
Varese ha una propensione all’export (rapporto tra valore delle esportazioni e valore aggiunto complessivo) del 40%, contro il 30% nazionale ed il 36% lombardo. Ogni 100 euro di importazioni le imprese varesine ne generano 142 di esportazioni, contro una media italiana di 112 e i 95 della Lombardia
Tuttavia, se il 2020 sarà archiviato come un anno eccezionale, rimangono validi alcuni fondamentali a sostegno del nostro essere provincia proiettata all’estero. Bisogna tenerne conto. Innanzitutto, merita di essere ricordato il principio della proporzionalità: siamo una provincia con un piccolo territorio, appena lo 0,4% dell’Italia, una popolazione (meno di 900.000 abitanti) che è pari ai 2/3 della sola città di Milano e ciononostante siamo in grado di generare il 2,2% del valore aggiunto dell’industria italiana ed il 2% dell’export dell’intero Paese. Un piccolo miracolo dovuto sia alla collocazione geografica (vicino al confine e al centro dell’incrocio tra i grandi assi infrastrutturali Nord-Sud Europa), sia alla lunga tradizione manifatturiera che ha prodotto nel tempo un tessuto produttivo molto vario e imprenditori naturalmente portati ad esplorare oltre frontiera.
Tutto ciò assicura un valore dell’export che, in tempi normali, si avvicina ai 10 miliardi di euro annui e ci colloca (dato 2019, export manifatturiero) al 14° posto sulle 107 province nazionali. Se poi si passa dal dato assoluto agli indicatori di apertura all’estero emerge con ancor maggior chiarezza la forte interdipendenza esistente nel nostro tessuto produttivo. Abbiamo una propensione all’export (rapporto tra valore delle esportazioni e valore aggiunto complessivo) del 40% circa, contro il 30% nazionale ed il 36% medio lombardo. Possiamo contare su un grado di copertura del commercio estero che ci assicura che ogni 100 euro di importazioni siamo capaci di generarne 142 di esportazioni, una buona performance se si pensa che l’Italia ne assicura mediamente 112 e la Lombardia circa 95 (dati 2019).
In buona sostanza, da qualsiasi parte la si voglia guardare, la nostra predisposizione verso l’estero è veramente molto elevata. Sinora è sempre stato un bene, poiché navigavamo nei tempi certi della globalizzazione. Ma ciò non significa che non ci siano rischi. Il più significativo è quello che fa sì che qualsiasi oscillazione della domanda oltre confine pesi fortemente sugli ordinativi delle nostre imprese. Tanto più quando, come in questi anni, la domanda interna si è per lo più rilevata strutturalmente debole. Ciò è particolarmente vero per Varese, ma è più in generale vero per il nostro Paese, che è molto ben inserito nelle Global Value Chain internazionali (GVC).
La pandemia potrebbe lasciarci in eredità una riorganizzazione della produzione globale, e come sostengono alcuni centri di osservazione economica, non è da escludere un accorciamento delle catene del valore ed una tendenza al reshoring (il rientro in Italia di investimenti produttivi dall’estero)
Secondo l’UNCTAD, infatti, nel 2018 la componente a monte della partecipazione media italiana alle Global Value Chain è stata pari al 30% dell’export di beni e servizi e quella a valle al 25%. Varese, considerata la sua vocazione, ha valori ancora al di sopra di questa media. Si calcola inoltre che, prima della pandemia, più della metà delle esportazioni italiane siano riconducibili alle Global Value Chain. È lecito chiedersi cosa succederà ora in questo 2021 che si apre ancora segnato dalla pandemia. Se si guarda al passato, a ciò che è accaduto nella precedente grande crisi del 2009, si osserva che dopo l’iniziale contrazione, legata alla caduta della domanda internazionale, le catene globali del valore si sono dapprima ridotte per poi tornare ad espandersi recuperando nell’arco di 3 anni. Il paragone però regge relativamente. Infatti, quella attuale è una crisi economica generata da una crisi pandemica che ha interrotto, improvvisamente e forzatamente, i contatti durante il periodo del primo lockdown, e ha continuato ad agire, anche se a livelli meno intensi, anche nel secondo lockdown.
Bisognerà quindi attendere la “sterilizzazione della pandemia”, prima di prevedere una ripresa corposa dei flussi di scambi lungo le Global Value Chain. Ed anche in questo caso ci vorrà del tempo per tornare ad una pseudo normalità. Sono in molti a prevedere che la situazione di shortage nelle scorte di materie prime e nei prodotti di lavorazione intermedia, che ha penalizzato le catene produttive internazionali in fase di lockdown, lascerà un cono d’ombra stabile. Si continuerà, certo, a produrre seguendo supply chain lunghe ed articolate, ma di pari passo si cercherà di creare una rete di sicurezza di prossimità nelle forniture. Non sono poche le imprese che hanno iniziato a considerare l’opportunità di tenere più elastiche le loro catene di fornitura, prevedendo di introdurre una “ridondanza precauzionale” di fornitori anche territorialmente più vicini.
La pandemia potrebbe lasciarci quindi in eredità una riorganizzazione della produzione globale, e come sostengono alcuni centri di osservazione economica, non è da escludere un accorciamento delle catene del valore ed una tendenza al reshoring. Se questo avvenisse, i Paesi dell’Est asiatico dovrebbero a loro volta riorganizzare le loro filiere produttive, un’operazione che potrebbe rivelarsi alquanto complessa. Insomma, essa potrebbe aprire numerose sfide anche per noi. Come coglierle? Due le strade: puntare sulla “qualità dell’export” e favorendo l’internazionalità in casa.La prima si percorre valorizzando la quota di export tecnologicamente avanzato. Si tratta di una potenzialità che già abbiamo naturalmente sul territorio varesino dove circa il 58% delle esportazioni sono Hi Tech, ben più della media lombarda (46%) ed italiana (43%).
La seconda è quella di aumentare la nostra internazionalizzazione non solo di vendita, ma anche di produzione cercando di ricreare a Varese e più in generale in Italia quelle condizioni di maggior favore per continuare a produrre, nel nostro Paese. Ciò significa da un lato far crescere le nostre imprese in grado di esercitare un ruolo di traino per le filiere e diventare multinazionali, ma anche tornare ad attirare gli investimenti esteri (Ide), favorendo il reshoring in una logica che ci aiuterebbe non solo a mantenere vive le catene globali del valore, ma anche a “scalarle” dall’interno. Queste le prossimi sfide da vincere se vogliamo non solo tornare ai livelli normali di esportazioni, ma anche guadagnare posizioni in termini di qualità e capacità di forza di traino del nostro tessuto produttivo. Le crisi e le discontinuità creano anche occasioni, come diceva Keynes: il nostro destino è nelle nostre mani.
Area cargo di Malpensa
Per saperne di più leggi anche: