Una vita da biohacker

Mattia Coffetti, 36 anni, bresciano, è il primo italiano ad essersi impiantato 5 microchip sottopelle. A cosa servono? Per pagare il caffè al bar, aprire o chiudere porte, mostrare il p

Mattia Coffetti, 36 anni, bresciano, è il primo italiano ad essersi impiantato 5 microchip sottopelle. A cosa servono? Per pagare il caffè al bar, aprire o chiudere porte, mostrare il proprio biglietto da visita virtuale o attrarre a sé oggetti metallici. Una nuova frontiera della tecnologia che vuole abbattere ogni limite del corpo umano per potenziarne al massimo le funzionalità fisiche e cognitive. Non si tratta, però, solo di giocare con il futuro. Questo fenomeno ha importanti campi di applicazione anche nell’ambito medico

‘‘Ho deciso nel 2019 di impiantarmi 5 microchip sottopelle e di avvicinarmi, così, al mondo del biohacking. Un mondo che mi ha sempre appassionato molto. Il motivo? Testare questi strumenti per potenziare le funzionalità del mio corpo e abbattere ogni tipo di limite fisico o mentale grazie all’utilizzo della tecnologia”. Questa l’esperienza del bresciano Mattia Coffetti, classe 1988, che nella vita di tutti i giorni si occupa di sicurezza informatica. Oggi, oltre ad essere un personaggio conosciuto per la sua storia a dir poco particolare, è anche divulgatore di queste tematiche. Lo scorso anno, per esempio, è stato ospite ad un evento promosso da CybergON, la business unit della Elmec Informatica di Brunello, dal titolo “Cyber Things – Uomo e Tecnologia: le due dimensioni del SottoSopra”.

La tua è una storia curiosa, che non si sente raccontare tutti i giorni. Quando e in che modo è nato questo desiderio di vivere una vita da biohacker? 
Ho iniziato questo percorso nel 2019 dopo essermi informato su alcuni forum online. Ho trovato una comunità in rete che commercializzava microchip di vario genere e con diverse funzionalità e così ho deciso di iniziare a sbizzarrirmi per cercare di capire quali di questi potessi testare sul mio corpo. 

Il motivo di questa scelta? 
Sono stati due i principali motivi che mi hanno spinto a farlo. Il primo perché, fin da quando ero solo un bambino di cinque anni, ho capito che il mondo dell’informatica sarebbe stato la mia più grande passione. Ed è proprio grazie a questo personale interesse che mi sono avvicinato all’universo del biohacking (programmazione che riguarda tanto la mente quanto il corpo dell’essere umano), del cyberpunk (genere narrativo che trae spunto dalla possibilità di uno sviluppo della tecnologia) e del transumanesimo (movimento culturale che sostiene l’uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche per aumentare le capacità fisiche e cognitive). Da qui, la seconda ragione che mi ha spinto a intraprendere questo percorso: quello di voler migliorare il funzionamento del mio corpo

Dove si acquistano i chip? Come si innestano? 
I chip che nel corso del tempo mi sono impiantano li ho acquistati online da alcuni rivenditori specializzati nel settore e successivamente, attraverso un’applicazione sul telefono, li ho configurati in base alle mie necessità. Per intenderci, niente di diverso da quello che avviene quando si configura, per esempio, Alexa. È un’operazione veloce e non particolarmente dolorosa: è come farsi un piercing o un piccolo tatuaggio. 

Cinque microchip non sono pochi. Quali funzionalità hanno? 
Il primo chip ha una duplice funzione: può essere utilizzato come chiavetta Usb per sbloccare, per esempio, il telefono, per aprire o chiudere le porte o per accedere alla mia cassaforte virtuale. Attualmente questo chip più “universale” e che può avere diverse funzioni in base a come viene programmato, lo utilizzo soprattutto durante meeting o conferenze per presentare il mio biglietto da visita virtuale, ovvero il profilo della mia pagina LinkedIn. Il secondo, invece, funziona come un’autenticazione a due fattori per accedere ai siti web o ai portali online. Il terzo, tra quelli che uso di più, è quello che mi permette di effettuare i pagamenti. Se vado al bar a prendere un caffè, mi basta avvicinare la mano al pos per pagare e ricevere lo scontrino. Infine, gli ultimi due hanno funzionalità puramente estetiche. Uno è un magnete e funziona esattamente come una calamita, permette di attrarre a sé qualsiasi oggetto metallico. Il secondo è un vero e proprio Led che si illumina di vari colori avvicinando una fonte di elettricità. 

Nella vita di tutti i giorni, essere un “uomo bionico”, se così ti si può definire, cosa comporta? Come reagiscono le persone quando utilizzi la mano per pagare il conto al ristorante? 
Ci sono principalmente due tipi di atteggiamenti a cui assisto. Alcune persone rimangono stupite e mi guardano in modo strano, perché non capiscono come io possa aver pagato avvicinando semplicemente la mia mano al pos. Spesso, queste stesse persone sono convinte che io voglia addirittura truffarli. Altri invece, sono divertiti e incuriositi. Sicuramente un po’ straniti, ma hanno interesse nell’approfondire l’argomento e mi chiedono di raccontargli la mia storia.

Al di là dell’aspetto più ludico, l’utilizzo di questi chip può avere riscontri positivi anche dal punto di vista della medicina. Può davvero esserci un futuro in questo ambito? Qual è la tua missione?
Il mio obiettivo è quello di raccontare la mia esperienza a titolo divulgativo. Solo in questo modo anche le persone comuni potranno avvicinarsi a queste tematiche senza avere paura di eventuali violazioni di privacy. Una delle perplessità più ricorrenti è che all’interno dei chip ci sia un Gps in grado di rintracciare o tracciare i movimenti delle persone. Non è così. I chip hanno dimensioni molto piccole e non contengono nessun sistema in grado di impossessarsi di informazioni personali. Sono gestiti tramite un’applicazione secondo output che vengono impostati da chi se li impianta. La mia missione è quella di trasferire l’idea che il corpo, così come la mente, non deve più lasciarsi limitare da eventuali difetti. Il nostro corpo deve poter essere potenziato al massimo delle proprie capacità. Un po’ come se fossimo dei computer, mantenendo, però, un’identità umana. Per il futuro, la mia speranza è quella che questo tipo di tecnologia venga implementata ed utilizzata anche, per esempio, in medicina per curare malattie neurodegenerative.   

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