Una vecchia Macina di Pietra Logora
“Un cortiletto per metà coperto da un piccolo portico a ridosso di muri ruvidi e sbrecciati con la relativa patina del tempo a chiazze verde marcio. Da una parte si intravede il mulino. D
“Un cortiletto per metà coperto da un piccolo portico a ridosso di muri ruvidi e sbrecciati con la relativa patina del tempo a chiazze verde marcio. Da una parte si intravede il mulino. Di contro la casa, una stalla e un pollaio; una vecchia macina di pietra logora come una bocca sdentata; pingui maiali orecchiuti, oche protestanti, galline pettegole e un vecchio cane curioso”. L’intrigante prosa giornalistica di Giuseppe Talamoni, critico d’arte per la rivista “La Provincia di Varese” del settembre 1934, descrive a pennellate cariche di colore la casa-museo di Innocente Salvini, pittore “senza scuola e senza maestri” che all’epoca aveva già oltrepassato il traguardo dei 45 anni d’età e che, pure, era ancora poco noto: “Un mugnaio pressoché sconosciuto che dipingeva da quasi trent’anni, tutto solo e che non conosceva né mondo né ambienti artistici”. L’articolo farà la fortuna e, al tempo stesso, limiterà l’immagine che nei decenni successivi ci si farà del grande pittore valcuviano. Tutto chiuso in se stesso, ignaro di quanto stava accadendo nel mondo dell’arte o soltanto timido e introverso, ma niente affatto estraneo all’universo pittorico contemporaneo?
Quattro passi nella “valle dei merli”, fra Trevisago e Gemonio, alla ricerca di un mulino e del suo mentore Innocente Salvini
LO STUDIO DI NOCENTIN
Talamoni rincara la dose: “L’ambiente non è Novecento; non tragico o sintetico o plastico. Anzi è quel che si dice pittoresco e narrativo, tutto pervaso di poesia virgiliana”. Ce n’è abbastanza da credere all’esistenza, in questo angolo remoto di Varesotto denominato – altra pennellata d’antan – “valle dei merli”, giusto al confine tra Cocquio (anzi Trevisago) e Gemonio, della macchina del tempo sulla quale anche oggi, più di ottant’anni più tardi, è possibile viaggiare. Lo studio di Nocentin (così chiamato in famiglia da mamma, sorella e fratello – i modelli per le sue tele – e in paese) è “una stanza poco più di una soffitta, con una sola finestra piccola e bassa per la quale la luce entra a malapena, incupita dal verde di fuori. Giro lo sguardo attorno. Centinaia di tele enormi, accatastate alla rinfusa senza tanti riguardi, ingombrano la stanza. Un canterano polveroso, carico di risme di carta disegnata, qualche sedia male in gambe e pochi metri di spazio dove ci si muove a disagio…”. Un tocco di aura bohemien, forse, ma soprattutto un carico di civiltà contadina dalla quale l’artista non ha mai voluto distaccarsi. Ambiente disteso, dai toni pacati in mezzo al quale urla il colore acceso del grande artista. Lasciamo la sciolta prosa del buon Talamoni e proseguiamo da soli il nostro viaggio all’indietro nel tempo. Ciò che abbiamo appena letto non è molto diverso da quanto incontriamo oggi.
LA SCOPERTA DEI CRITICI, DA DE GRADA A TESTORI
Rimessi in ordine i quadri grazie alla sensibilità degli eredi e all’appoggio degli enti pubblici, fatta la giusta pulizia di ambienti che dal 1983 sono aperti al pubblico come sede museale (mercoledì, sabato e domenica dalle 15 alle 18, dal primo aprile al 30 ottobre, telefono 0332.602161), l’atmosfera descritta nell’articolo di metà Anni Trenta è rimasta intatta. Il medesimo silenzio ovattato (a meno che la ruota del mulino non venga messa in moto giusto per voi…), le stesse prospettive interne disegnate da tagli di luce violenta e coni d’ombra, uguali orizzonti di verde e di fresco inquadrati dalle piccole finestre. E’ un altro mondo, è il mondo di un pittore che di nome non poteva che essere Innocente perché innocente è anche il mondo nel quale è vissuto – con rare eccezioni di pochi giorni – lungo i novant’anni che corrono tra 1889 e 1979. C’è da stupirsi, mentre i capitoli della storia dall’arte correvano dietro alle istanze novecentiste di Modigliani e De Chirico, De Pisis e Morandi, dal futurismo al divisionismo e oltre, che nemmeno lo spazio concesso dai Musei Vaticani o gli accorati appelli di De Grada e di Testori siano riusciti a spalancare le porte della “grande critica” ai gialli, ai rossi, ai blu primari di Innocente Salvini? Cosa può il pittore dell’unità familiare, della semplicità naturale, dal sacro quotidiano contro l’arte dissacratrice dei maestri alla moda? Certo, molti passi avanti sono stati compiuti negli ultimi anni: mostre, scritti critici, pubblicazioni importanti (segnaliamo almeno “Innocente Salvini” per Silvana Editoriale, “I trent’anni del Museo Salvini” e “Il colore per me è come un delirio” curato da Serena Contini per Alberti Libraio Editore); ma altri ne restano da fare. Cominciamo con i nostri, alla ricerca del bello e del vero custoditi da sempre nella silente “valle dei merli”.