SuperDino va ancora a canestro

“Dino Meneghin – Storia di una leggenda”, documentario dell’esordiente Simone Rossi, porta sugli schermi la straordinaria carriera di uno sportivo che ha fatto grande la Pallacanest

“Dino Meneghin – Storia di una leggenda”, documentario dell’esordiente Simone Rossi, porta sugli schermi la straordinaria carriera di uno sportivo che ha fatto grande la Pallacanestro Varese. Il cestista ripercorre la propria vita dagli albori ai massimi successi con la speranza di appassionare i giovani, insegnando che anche una sconfitta può portare alla vittoria. Come racconta anche a noi in questa intervista rilasciata a Varesefocus 

Dalla Provincia di Belluno al campo di Milano, con un importante capitolo proprio a Varese, Dino Meneghin rappresenta la storia della pallacanestro italiana. La stessa pallacanestro che, dagli anni ‘70 fino agli anni ‘90, dominava i parquet europei, rendendo Varese “LA” squadra d’Italia. A lui è dedicato il documentario Dino Meneghin – Storia di una leggenda”, prodotto da Rai Documentari, Echivisivi e Solaria fim, e diretto dal regista Samuele Rossi, che ripercorre la vita della storica maglia numero 11, tra colpi di fortuna e qualche rimpianto. Un’occasione per Varesefocus per fare due chiacchiere con SuperDino, un vero e proprio mito del nostro basket.     

Come è nata l’idea del docufilm?    
Samuele Rossi aveva già raccontato storie di diversi sportivi ed essendo lui un grande appassionato di pallacanestro ha scelto di contattare me, ma devo essere sincero, all’inizio non ero del tutto convinto.

Come mai ha poi cambiato idea?    
È stata del tutto una casualità. Qualche giorno dopo la telefonata di Samuele mi trovavo a cena da amici e i figli, chiedendomi della mia carriera, non erano minimamente a conoscenza di quello che era stata la pallacanestro italiana trent’anni fa. Lì allora ho capito che era il momento di far rivivere e conoscere un pezzo di storia del basket, senza il quale quello attuale non esisterebbe.

La prima tappa del tour promozionale del documentario è stata proprio Varese, città in cui, anche grazie a lei, il legame con la pallacanestro è molto forte. Come vive oggi questo rapporto e quali ricordi conserva della sua esperienza a varesina?    
Io ormai vivo a Milano dagli anni ‘80 ma a Varese sono sempre tornato per la mia famiglia. La città ha dato la possibilità a mio padre di lavorare, a mio fratello di studiare e avere una sua attività e a me di giocare a pallacanestro. Se con la mia famiglia non ci fossimo mai trasferiti e da ragazzo fossi rimasto a Belluno, tutto questo non sarebbe mai successo. Ho sempre apprezzato la passione che c’è verso la pallacanestro. Mi è capitato di vedere qualche partita e ho sempre visto il palazzetto pieno e questa è una cosa importante, sia per chi investe, dirigenti e società, sia per chi allena e gioca. Bisogna però continuare così: è facile andare a tifare quando si vince ma è ancora più importante sostenere la squadra quando ha qualche difficoltà. Quello è il vero gioco di squadra.

Quando ha capito che il basket poteva essere la sua carriera?    
Da giovane giocavo pochi minuti, ma lo consideravo un gioco e un divertimento. La svolta è avvenuta nel 1969 quando la squadra ha vinto il primo scudetto. L’entusiasmo generato mi ha fatto capire l’importanza dei giocatori e della squadra per la città. Vedere gratificati gli sforzi mi ha dato soddisfazione e ho capito che quella poteva essere la mia strada e la mia professione.

Il suo ruolo sportivo è stato molto importante. Come valuta il suo impatto e la sua influenza sul basket nel nostro Paese?    
Ho sempre avuto la fortuna di giocare in grandi squadre e questo ti stimola a puntare in alto e a giustificare i sacrifici fatti. Abbiamo vinto tanto in Italia e in Europa con la nazionale, posizionandoci sempre nei primi posti e tutte queste vittorie hanno fatto parlare molto di me. Ma io giocavo anche con grandi campioni. Ero consapevole del mio ruolo ma sono sempre stato umilmente con i piedi per terra ed ero consapevole che il mio successo era dovuto anche al fatto di essere circondato da brave persone, oltre che da buoni giocatori. I risultati ottenuti erano frutto di un grande lavoro di squadra generale. Non mi sono mai sentito più importante di altri, ero uno che ci teneva che la squadra vincesse per far sentite tutti importanti.

Questo suo impegno nel sostenere i compagni, infatti, emerge molto nel documentario.
Questo è basilare perché la difficoltà di costruire una grande squadra sta, certo, nel trovare giocatori che siano bravi tecnicamente ma che sappiano anche vivere bene insieme. È essenziale che negli spogliatoi non ci siano invidie o gelosie. Io ho visto squadre in cui ognuno sapeva stare al suo posto e fare il suo dovere e i risultati arrivavano. A Varese la bravura della società di allora, della famiglia Borghi, è stata quella di costruire insieme agli allenatori una squadra di grandi giocatori ma soprattutto di persone a modo.

Anche suo figlio Andrea è stato un grande giocatore di basket. Come ha vissuto da padre questi suoi successi?
Ha scelto lui di giocare a pallacanestro, io non l’ho influenzato particolarmente perché è sempre stato libero di scegliere quello che voleva fare, ma sono orgoglioso abbia puntato sul basket. Ha fatto vedere di che pasta era fatto, diventando uno dei migliori giocatori europei, campione d’Europa con la nazionale e campione d’Italia con la stessa Varese. Inoltre, lo sport ci ha riavvicinato. Per un buon periodo io ero troppo con la testa sul basket, sacrificando anche il tempo con la famiglia, ma sono riuscito a capire poi i miei errori e a rimediare. 

Considerando l’importanza del basket nella sua vita, cosa consiglierebbe ai giovani che si avvicinano a questo sport?    
Lo sport insegna a comunicare e a vivere con altre persone creando amicizie, solidarietà e imparando il rispetto per gli altri e per le regole. Fisicamente permette di puntare sulle proprie capacità, di reagire alle cose negative. Se all’inizio non sei immediatamente forte non ti abbatti e cerchi di migliorare. Ogni sacrificio vale la pena di essere vissuto perché ti migliora e ti rafforza anche da un punto di vista psicologico. Non ci sono scorciatoie. È importante applicarsi nel tempo e impegnarsi, traendo forza anche dalle sconfitte. 

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