L’impatto della geopolitica sulle imprese
Come si stanno riorganizzando le filiere produttive manifatturiere di fronte ad uno scenario internazionale sempre più complesso e conflittuale? Quale ruolo gioca il Sud-Est asiatico in questo
Come si stanno riorganizzando le filiere produttive manifatturiere di fronte ad uno scenario internazionale sempre più complesso e conflittuale? Quale ruolo gioca il Sud-Est asiatico in questo riposizionamento? In quali produzioni strategiche sono più esposte l’Italia e l’Europa? E se alla Casa Bianca tornasse Trump? Da una parte le domande che si pongono le aziende industriali. Dall’altra le risposte degli esperti dell’Ispi – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale
Molte province italiane hanno un’industria manifatturiera fortemente internazionalizzata e orientata all’export. Quali sono le opportunità e i rischi per le nostre filiere produttive in un nuovo mondo multipolare, in cui la globalizzazione cambia forma e ragiona più a “blocchi regionali”?
Il mutamento del paradigma della globalizzazione, con l’accentuazione degli scambi e nuove geografie economiche soprattutto nei settori strategici tra Paesi “like-minded”, che condividono, cioè, determinati valori, strategie e interessi, avrà probabilmente conseguenze di duplice segno per le filiere produttive europee e quindi anche italiane. In primo luogo, il de-risking, con l’accorciamento e la diversificazione delle filiere, potrà garantire una maggiore sicurezza degli approvvigionamenti, riducendo progressivamente i rischi che shock esogeni ripetuti, come crisi geopolitiche o disastri naturali, possano determinare gravi impatti, fino alla paralisi, di interi settori produttivi. D’altra parte, ciò potrà anche determinare un aumento dei costi degli approvvigionamenti, con un possibile aumento dei prezzi finali per i consumatori. Resta da vedere l’impatto sulla logistica: filiere più corte potrebbero anche significare minori costi di trasporto, ma questo non è un assunto automatico.
A tal proposito, quale può essere il punto di equilibrio in termini di cooperazione tra il nostro sistema economico e quello di potenze in forte contrapposizione (Usa vs. Cina)? Che ruolo può giocare l’industria italiana in uno scenario geopolitico sempre più frammentato?
In uno scenario del genere il sistema economico italiano è fortemente legato all’andamento dell’industria europea e di quella tedesca. L’Europa sta cercando di “difendere” la propria base manufatturiera dagli investimenti di politica industriale americani e cinesi con una propria politica industriale e riflettendo sulle limitazioni alle auto cinesi. Infatti, il settore maggiormente sotto stress è l’automotive tedesco legato a doppio filo a quello italiano. Se fino a pochi anni fa la Cina era il mercato di destinazione di maggior rilievo, oggi è diventata il primo Paese per export di autoveicoli a livello globale. L’Europa ha così la doppia sfida di proteggere la propria produzione e trovare nuovi mercati di sbocco e di produzione. Un ruolo significativo lo svolgeranno i Paesi del Sud-Est asiatico che rappresentano un’opportunità per costi e qualità della produzione a cui si aggiunge una vicinanza politica di fondo. L’Italia può giocare un ruolo se si inserisce per tempo in queste dinamiche di evoluzione, investendo sui settori di maggiore tecnologia, soprattutto nel caso della componentistica, e stabilendo per prima delle relazioni solide con le nuove sedi di produzione globale.
La manifattura italiana ed europea si sta già in qualche modo riposizionando di fronte al timore di un conflitto per Taiwan?
Il caso di Taiwan è certamente un rischio estremamente sentito dall’opinione pubblica, ma, al momento, e per fortuna, di difficile realizzazione. Pur considerando il timore di essere smentiti, un eventuale conflitto a Taiwan avrebbe il potenziale di impattare tutta l’economia mondiale non soltanto il perimetro regionale. In discussione non ci sarebbero solo le relazioni commerciali con l’isola e la logistica nello Stretto, ma le relazioni economiche con la Cina nella loro interezza, tanto che alcuni azzardano un costo di 10.000 miliardi di dollari per l’economia mondiale in caso di invasione da parte di Pechino. Detto ciò, non vuol dire che non si debba prevenire tale rischio, ma andrebbe considerato come esigenza generale di diversificazione, non solo legata a un conflitto relativo a Taipei. L’attenzione per il Sud-Est Asiatico va in questa direzione, ovvero quella di ridurre la dipendenza da Pechino, un fattore di debolezza nel caso in cui le relazioni nello Stretto di Taiwan dovessero precipitare.
In termini di interdipendenze strategiche (fonti energetiche e materie prime), a cosa dobbiamo porre più attenzione come tessuto produttivo (sfide su batterie, semiconduttori, gas, rinnovabili)? In quali settori siamo più esposti? Dove invece siamo più al sicuro nelle possibili interruzioni di flussi negli scambi commerciali?
Sicuramente bisogna ragionare sempre più su un piano europeo. La nuova politica industriale Ue, centrata in particolare su clean tech e semiconduttori, pone importanti obiettivi di autonomia strategica e di diversificazione. Ad esempio, per i semiconduttori lo Eu Chips Act fissa obiettivi di produzione interna pari al 20% del totale mondiale entro il 2030; nell’ambito del clean tech, il Net Zero Industry Act ha individuato alcuni settori strategici, tra cui batterie, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici, elettrolizzatori per la produzione di idrogeno, tecnologie per le reti elettriche, in cui l’Ue dovrebbe raggiungere una produzione domestica del 40% entro il 2030. Per quanto riguarda gli stessi minerali critici, attraverso il Critical Raw Materials Act, si pongono obiettivi di produzione interna, di riciclo, si prevede lo sviluppo di nuove tecnologie che permettano l’individuazione progressiva di materiali sempre più circolari. Un ulteriore elemento di criticità è dato dai mercati energetici. L’Europa ha già fatto molto per la diversificazione degli approvvigionamenti, con un ruolo sempre minore della Russia per la fornitura del gas naturale e del petrolio. L’integrazione tra i mercati Ue è sempre più necessaria, in un contesto di progressivo sviluppo delle rinnovabili che, per loro natura, sono intermittenti. Ciò garantirebbe una maggiore stabilità del sistema europeo, facilitando l’incontro tra picchi di domanda e offerta dei diversi Paesi, riducendo al tempo stesso sempre più la dipendenza da fonti fossili e con un ruolo sempre più centrale anche dell’energia nucleare come stabilizzatore dei picchi. Sono tutti obiettivi ambiziosi, che si scontrano con il fatto che anche gli altri Paesi non stanno a guardare. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno lanciato nel 2022 l’Inflation Reduction Act e lo Us Chips and Science Act, con forti sussidi per la produzione domestica nei settori dei semiconduttori e del clean tech. L’Inflation Reduction Act, in particolare, prevede dei requisiti di produzione nel territorio del Nord America per poter accedere ai sussidi dei veicoli elettrici, provocando distorsioni di mercato e una competizione in termini di maggiore attrattività rispetto all’alleato europeo. E la Cina, naturalmente, non rimane a guardare.
In un mondo sempre più complesso e a geometrie variabili, l’epicentro della conflittualità geopolitica si sta spostando sempre più verso Est, fino all’Indo-pacifico. Quali opportunità e rischi per l’industria italiana di fronte a questo scenario?
Il rischio principale è di perdere tempo e non restare al passo con cambiamenti estremamente rapidi. Nella percezione generale, spesso alcuni paesi dell’Asean vengono visti soltanto come aree “in via di sviluppo”, ma un paese come l’Indonesia, con i suoi 280 milioni di abitanti, viene salutata dal Financial Times come una “nuova superpotenza economica” e nel 2027 potrebbe essere la sesta economia al mondo, ragionando a parità di potere d’acquisto. Se queste sono le premesse, si capisce come sia fondamentale comportarsi da “first mover” verso la regione per forgiare stabili relazioni finché sarà ancora conveniente. Allo stesso modo, l’ascesa di nuovi poli della manifattura porterà alla creazione di nuovi campioni industriali che potranno essere altamente concorrenziali in termini di costi e tecnologie con le aziende italiane.
L’Europa è fortemente impegnata nelle politiche legate nelle transizioni green: transizione energetica, lotta al cambiamento climatico. Plastic tax, normativa sul packaging, abbandono della plastica monouso, messa al bando del motore endotermico. Provvedimenti che si spingono molto più in là rispetto a quelli adottati da altre economie nel mondo. Con obiettivi quantitativi e temporali ben precisi e ambiziosi. Quali le implicazioni sia dal punto di vista della competitività sia dei costi sia dei benefici per le economie europee, come quella italiana, più manifatturiere?
Si tratta di obiettivi estremamente ambiziosi, sia dal punto di vista industriale sia dal punto di vista climatico. A tali obiettivi non corrisponde tuttavia una dotazione di risorse finanziarie adeguate. E non si tratta di obiettivi climatici solo europei. Anche gli Usa hanno obiettivi analoghi al 2050 e la Cina al 2060. È una partita climatica, ma al tempo stesso e soprattutto industriale. La Cina investe nei settori della transizione con un impegno finanziario imparagonabile. Come risultato, alcuni prodotti cinesi, si veda l’auto elettrica, hanno una competitività molto maggiore. Ciò si è tradotto in una progressiva invasione di veicoli elettrici cinesi in Europa, grazie a costi del 30% inferiori. L’Ue potrebbe reagire a difesa dei produttori continentali prefigurando nuovi strumenti di natura protezionistica, come risultato del recente avvio dell’indagine della Commissione sui sussidi della Cina in sostegno dei propri produttori. A ciò si aggiunge anche il lancio del Carbon Border Adjustment Mechanism, che partendo da alcuni settori produttivi e con una progressiva espansione ad altri, mira ad evitare che si possa determinare un carbon leakage e quindi che la produzione si trasferisca in Paesi con regole meno stringenti per quanto riguarda le emissioni. Maggiori regole, maggiore protezione si traducono inevitabilmente in maggiori costi nel breve periodo. Resta da vedere se nel lungo periodo ciò potrà favorire la creazione di economie di scala interne all’Ue e la riduzione dei costi. Ma è certo che siamo entrati nell’era della sicurezza economica, dove l’efficienza economica e la competitività si devono coniugare sempre più ad obiettivi di sicurezza, soprattutto nei settori critici per l’economia del futuro.
E se alle elezioni presidenziali Usa vincesse Trump? Un’affermazione del tycoon come scompaginerebbe lo scenario internazionale? Con quali eventuali ulteriori sfide per le nostre imprese nel riposizionamento delle filiere produttive?
In caso di vittoria di Trump è possibile che aumenti la pressione sull’Europa sia in termini di competizione industriale, sia per quanto riguarda i costi aggiuntivi che gli Stati dovrebbero dedicare a comparti come quello della difesa, riducendo le già scarse risorse esistenti. Nei fatti, non si tratterebbe tanto di una modifica dello scenario appena descritto, quanto di una estremizzazione di quelle tendenze, tanto che l’ex Presidente in campagna elettorale ha minacciato un dazio al 60% per tutte le importazioni dalla Cina e del 10% per quelle dal resto del mondo. In questo quadro le aziende italiane hanno una motivazione maggiore per diversificare e mettere in sicurezza le filiere produttive. Nei casi più estremi, ma si tratta di politiche non ancora adottate, è possibile pensare di produrre direttamente nel mercato di destinazione per quello specifico mercato. È già quanto avviene con la Cina e con i dazi di Trump potrebbe essere anche il caso degli Usa.
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