Le storie di Simone
Un privilegio, prima che un mestiere. Il fotografo varesino Simone Raso ci racconta il suo senso della fotografia, in cui bello, etico e utile trovano il punto di incontro. Tra scatti per le imprese
Un privilegio, prima che un mestiere. Il fotografo varesino Simone Raso ci racconta il suo senso della fotografia, in cui bello, etico e utile trovano il punto di incontro. Tra scatti per le imprese, lo sport, il mondo delle onlus impegnate in Africa e tradizioni millenarie come i cacciatori con le aquile della Mongolia
‘‘Non scatto fotografie. Racconto storie…” Sapete quando partono le prime note di una canzone inedita del vostro cantante preferito e la riconoscete al volo? Ecco, per un dipinto, un libro, persino un vestito di alta moda e tante altre forme d’arte è così: una firma di talento, si riconosce al volo. Non occorrono le didascalie a svelare l’autore. Ed è così per le foto di Simone Raso, fotografo varesino che del raccontare storie, vere, anche delicate, sicuramente ricche di umanità, ha fatto la sua firma distintiva. Varesino, classe ‘75, “cairolino” – una definizione un po’ snob ma che accomuna molti protagonisti della cultura del territorio – Simone ha una storia professionale che lui stesso definisce “strana”.
Quali sono le tappe fondamentali di questo percorso?
C’è sempre una storia che vale la pena raccontare. La mia, in particolare, è segnata da tre progetti. Il primo è quello legato a Slums dunk onlus nata nel 2014: un nome gioco di parole che piacerà ai cestisti, per un progetto voluto dai giocatori Bruno Cerella e Tommaso Marino per migliorare le condizioni di vita dei bambini e dei ragazzi che vivono nelle aree economicamente e socialmente degradate dell’Africa. La onlus ha costruito il suo primo campo di pallacanestro nella baraccopoli di Mathare a Nairobi in Kenya dove il 50% della popolazione è composta da under 18 che risiedono in condizioni d’isolamento, con accessi limitati ai servizi primari come acqua, elettricità e servizi igienici. Slums Dunk ha usato lo sport come strumento sociale, attivando una scuola di minibasket, garantendo il libero accesso al campo e supportando l’educazione alle life skills in 10 scuole informali della baraccopoli con il coinvolgimento di circa 1.000 ragazzi. Attorno al campo è nata una vera e propria comunità. Il mio ruolo è stato quello di far vedere come il basket possa offrire una nuova possibilità attraverso il linguaggio della fotografia utile. Da lì sono nate altre idee: ho iniziato a guardare attorno al villaggio e ne sono uscito per raccontare cosa si trovava al di fuori. Ho dovuto ovviamente cambiare linguaggio e tecnica ma anche approccio. Innanzitutto, mi sono fatto accompagnare da due guide, fixer, che già conoscevo. Non volevo raccontare stereotipi o atteggiarmi come se fossi un visitatore allo zoo: era importante, anche se difficile, far comprendere il progetto alle persone per entrare in sintonia, creare una interazione con i protagonisti. Il lato etico è estremamente importante per me: volevo ritratti, non scatti rubati. Ho potuto quindi realizzare ritratti di persone, soprattutto bambini, realizzati con una luce flash che desse risalto al soggetto. Il tutto con strumenti di lavoro semplici, piccoli e discreti che non infastidissero le persone. Presentarsi in una baraccopoli con uno strumento vistoso sarebbe stato controproducente.
Anche la seconda esperienza riguarda la fotografia utile?
Il secondo progetto è legato ad un’altra onlus, Cuore Fratello, che raccoglie fondi per mandare medici, in particolare cardiochirurghi pediatrici, in svariate parti del mondo tra cui Shisong, in Camerun, dove è stato realizzato il primo Centro di Cardiochirurgia di tutta l’Africa Centro Occidentale. Una struttura che serve un bacino di utenza di 200 milioni di persone ed è dedicata prevalentemente ai bambini. Sono partito con i medici e lì ho realizzato un vero e proprio reportage per una campagna pubblicitaria destinata a raccogliere fondi per organizzare altre spedizioni. Se in Kenya il mio compito era divulgativo, in questo caso, il valore della fotografia, la sua utilità nel sociale, mi metteva una grande responsabilità: il racconto doveva muovere le coscienze e portare alla raccolta fondi per raggiungere altri risultati. Un’esperienza forte in ogni senso: una lotta contro il tempo per i medici, ma anche per realizzare gli scatti. Parte del racconto passa dalla difficoltà, dalla fatica, stanchezza e, a volte, disperazione dei medici fino alla gioia vera per la guarigione di un bambino. Una di queste immagini è stata tra le finaliste del Festival della fotografia etica di Lodi. Anche in questo caso, da un punto di vista tecnico, mi sono dovuto ingegnare: ad esempio, data la scarsa luminosità dell’ambiente ho usato, per rischiarare, la luce del cellulare.
Si può dire che hai viaggiato parecchio…
All’inizio della mia carriera per l’ente del Turismo del Sudafrica ho realizzato una campagna pubblicitaria che associava le immagini alle frasi pensate da persone comuni per un ipotetico diario di viaggio. È da lì che è nata una avventura professionale che mi ha permesso di viaggiare moltissimo. Ho avuto la possibilità di vivere esperienze che non tutti possono fare: dal volare in mongolfiera sul deserto del Kalahari a fotografare i gorilla in Uganda o l’aurora boreale, sdraiato sul ghiaccio, o a immergermi con lo squalo bianco. Turistico, ma certamente particolare, è il terzo progetto di cui parlavo, quello che mi ha portato ad uno scatto “fortunato” premiato al concorso “The Great Outdoors” organizzato dalla rivista statunitense PDN (Photo District News). Un racconto legato alla tradizione millenaria dei cacciatori con le aquile della Mongolia e del rapporto straordinario tra l’uomo nomade e l’animale. Sono state per me due settimane di viaggio fisicamente impegnative per incontrare piccolissime e affascinanti comunità di cinque, sei persone che vivono in tenda e raccontare il loro modo di vivere, entrando nelle loro “case”.
Sei stato dappertutto ma la passione è nata “in casa”.
All’inizio della mia carriera mi occupavo di tutt’altro: ero consulente IT. Mio padre, che molti ricorderanno come insegnante al Liceo Cairoli, era appassionato di fotografia aeronautica e mi portava a bordo pista. Oggi quell’esperienza è diventata lavoro: collaboro con la più importante e nota industria del settore aerospaziale nazionale, Leonardo, e le foto non le faccio più a bordo pista ma in volo! Collaboro poi con molte imprese del territorio e non: Lindt e Harley Davidson sono nel mio portfolio, solo per dare un paio di nomi noti. Ma anche professionisti come Roberto Valbuzzi, per il quale ho realizzato le foto del libro. Senza dimenticare tutto il mio percorso legato allo sport. Dalle 4 stagioni con Pallacanestro Varese al docufilm “Parigi 1999 – Vent’anni dopo”, realizzato con Alessandro Mamoli, per citare due esperienze su tutte. Ovviamente, in ogni campo, non lavoro da solo: il team e le relazioni con i colleghi per me sono fondamentali.
Visto che realizzi foto industriali, vorresti dare qualche suggerimento alle imprese e agli aspiranti fotografi in generale?
Le persone oggi vogliono giustamente sapere, conoscere, formarsi. È per questo che, durante la pandemia, ho aperto l’Accademia on line di fotografia. Per dare un consiglio, però, parto dal mio stile. Il mio intento è realizzare un linguaggio fotografico che trasmetta la forza e la potenza, come per gli atleti in campo anche per tutti i tipi di fotografia. Nell’evento sportivo, se ci riflettete, emozione e delusione fanno la differenza rispetto al gesto atletico in sé e trasmettono qualcosa. L’obiettivo è quindi raccontare atmosfera, emozione e persone di un certo tipo. Il consiglio è sempre quello: raccontare una storia. Con un’attenzione. Il fotografo è un grande bugiardo: non deve alterare ma, come qualsiasi narratore offre un punto di vista. Decide che parte di realtà raccontare. Ma ovviamente c’è tanto altro. Per quanto riguarda la tecnica, invece, questa deve essere semplicemente funzionale al messaggio: così come nella baraccopoli non potevo portare una attrezzatura complessa, a volte lo scatto di uno smartphone può emozionare. Dipende da che tipo di obiettivo ci si pone. Poi una raccomandazione più pratica: stampare sempre le foto per toccare con mano quello che si è scattato. Ma, soprattutto, un consiglio più di ampio respiro: la fotografia oggi si consuma, invece può essere utile.
Alcuni scatti fotografici