L’armonia del segno che insegue la verità

Le sue linee e i suoi tratti rappresentano “segmenti di vita”. Un lavoro che è “un po’ preghiera, un po’ dubbio, un po’ lamento”. Intervista a Giovann

Le sue linee e i suoi tratti rappresentano “segmenti di vita”. Un lavoro che è “un po’ preghiera, un po’ dubbio, un po’ lamento”. Intervista a Giovanni La Rosa, l’artista varesino, siciliano di origine, che da cinquant’anni con pennino e china dà vita ad una costante ricerca che guarda all’uomo e alla storia, “dentro e intorno a me” 

Della sua patria siciliana Giovanni La Rosa, nato nel 1936 a Caccamo, conserva tutti i ricordi dell’infanzia. Di un vivere semplice e genuino ma fatto di impegno, di una serietà che lo ha accompagnato da subito. Come l’amore per il disegno, verso il quale ha sentito, ancora giovanissimo, già negli studi scolastici elementari e ginnasiali inframmezzati dalla guerra, un trasporto superiore a ogni altro interesse. A ispirarlo, più che la campagna e il castello di Caccamo, sono state le piccole o grandi chiese, come il Duomo di Monreale. E ancor più che i mosaici e le preziose tessere, oggetto della sua attenzione erano le scritte, delle lettere e dei numeri, incise con stupefacente nitidezza. Il sole batteva un giorno forte e chiaro sui muri. E, ricorda ancora oggi, il suo sguardo di giovane allievo della Scuola d’Arte Palermitana correva con inaspettata meraviglia su quei levigati segni che univano tra loro, nell’incalzare dei giorni e della storia, grammatica e matematica: “Ho messo subito da parte, perché non era nei miei interessi, il richiamo della solita retorica del paesaggio mediterraneo, con le palme, gli agrumi, i colori forti e tutto quanto fa Sicilia. Mi incantavano invece la perfezione e la nitidezza di quelle lettere e di quei numeri. Sentivo che proprio lì c’era la storia, lì c’era il mistero antico, il senso della vita anche della mia terra che ti spinge a fare certe scelte piuttosto che altre. Quella è stata la mia”. Oggi Giovanni La Rosa si racconta nella casa dove ha portato il suo nuovo studio, dopo quello (di anni di lavoro) nel palazzo e nel cuore antico del Broletto di Varese. Sulla parete alle sue spalle piccole opere rimandano alle prime produzioni e fanno pensare alle minute preziosità narrative dei mosaici, dove segni, lettere e simbologie riportano a reminiscenze dell’arte più antica. Il lavoro di La Rosa, paziente e perfetto, è dono umile e insieme superbo di un artista e di un uomo giusto, che da sempre cerca il meglio. E che, mentre affonda dentro se stesso lo sguardo acuto, per avere conferme, consegna agli altri, in anni di impegno tra importanti mostre in Italia e all’estero, fondamentali lembi di verità. Da leggersi e conservarsi (attenzione) come codici preziosi.
 
A proposito di lavoro, quali le scelte parallele alla vita d’artista?
Avendo fatto la scelta scolastica giusta per me, avevo ottimi voti, vinsi un viaggio-premio a Milano. Fui subito notato da qualche imprenditore che cercava buone mani capaci di raccontare nuovi prodotti da far conoscere al mercato. Fu l’inizio di un lavoro che mi diede grande soddisfazione e mi avvicinò appunto a Milano, città che mi seduceva per la sua varietà di idee e progetti di lungo raggio. Me ne accorsi quando visitai per la prima volta la Triennale e lì davvero mi si aprì un mondo che neppure immaginavo. Da allora le mie attitudini artistiche sono state supportate da una professionalità parallela che mi faceva lavorare su progetti e idee concrete, ma mi permetteva insieme di assecondare i miei sogni privati. Ho lavorato da subito anche per alcune aziende di moda, come Bellanca e Amalfi, che mi richiesero cataloghi ma anche scenografie e disegni per le loro sfilate a Palermo nel ‘59, fidandosi della mia arte pulita e lineare. Poi ebbi diverse collaborazioni anche per l’editore Palumbo, illustravo libri per ragazzi e anche questo è stato un piacere immenso. L’insegnamento dell’arte nelle scuole superiori mi ha poi permesso di continuare a fare quel che mi piaceva. 

Sono nate al Nord anche l’amicizia con Munari e Morandini. Com’era il rapporto con loro?
Del primo ho apprezzato la sua capacità di inventare oggetti particolari, come la famosa lampada. Il secondo, con cui ho sempre condiviso anche l’impegno nell’Associazione Liberi artisti di Varese, si è rivelato, oltre che un grande artista di caratura internazionale, un amico carissimo. Una persona alla quale voglio bene da sempre. 

Quante ore lavora oggi? 
Cinque al giorno, una volta molte di più, stavo giornate intere, ma gli anni passano e non posso esagerare. Mi accorgo che non devo pretendere troppo da me stesso come ho fatto in passato. E poi il mio lavoro mi chiede sempre più attenzione tecnica e mentale. Munari mi paragonava a un computer, scherzava ma sapeva quanto il mio preciso lavoro fosse teso al limite del possibile. All’imperdonabilità dell’errore mentale e manuale.

Come si raggiunge questa precisione del segno e con quale tecnica? 
Uso da sempre la china e pennini che fatico ormai a trovare, ma nel tempo ne ho fatte delle scorte enormi. E lavoro su tela, a mano libera. La tela rende più facile lo scorrere del pennino, in un lavoro che non ammette correzioni. Alcune di queste ottime tele che uso mi sono arrivate dallo studio di Lucio Fontana. 

La mostra della scorsa estate a Villa Mirabello per celebrare i suoi cinquant’anni di attività, che richiama quella dell’82 con Caminiti, Assessore alla Cultura di Varese, nella stessa sede, ha avuto un ottimo gradimento e ha portato alla conoscenza del pubblico opere recenti, di grande impatto visivo. 
Mi hanno fatto notare in molti che gli ultimi lavori, di dimensioni maggiori e di grande impegno tecnico prospettico, rivelano, nella sovrapposizione di linee tra cerchi e altri elementi geometrici, uno scatto in avanti verso la tridimensionalità. Hanno richiesto giorni e giorni di lavoro e un’attenzione costante. Nascondono certi piccoli segreti, come la polvere di ceramica spruzzata per rendere leggerissime velature, o per assecondare luminescenze coloristiche con effetti di accesa luminosità o di rotondità. 

Quali nuovi progetti ha?
Non nascondo di avere in vista altri progetti dopo la mostra che mi ha dato grande soddisfazione per i miei cinquant’anni con l’arte. Ma intanto guardo al cammino intrapreso e anche questa volta mi interrogo e mi rispondo che ho fatto tutto quello che volevo, senza guardare a mode correnti. Quello che posso dire, e mi importa, è che sono stato coerente in tutto il mio lavoro. 

Si è parlato di spiritualità nella sua opera. C’è un senso religioso?
Sì, come ha rilevato anche l’Assessore alla Cultura di Varese Enzo Rosario Laforgia a Villa Mirabello, è proprio così. Se continuo a lavorare, e non mi posso fermare, è proprio perché continuo a cercare. Dentro e intorno a me. Guardo alla storia e guardo all’uomo. Fino ai primi segni incisi sulla roccia. Lavoro perché sento che devo scoprire sempre di più, che il mio gesto mi avvicina a quella verità che sto inseguendo. Un po’ preghiera, un po’ dubbio, un po’ lamento. Questo rappresentano le tante linee, i tanti segmenti del mio lavoro. Sono tutti segmenti di vita. E quanti ancora ne vorrei tracciare. Ma più lavoro, più mi accorgo che la vita è comunque breve e vorresti averla riempita, aver dato ancora di più. 

E la musica c’entra con la sua scrittura d’artista? 
Certo, la musica ha molto a che vedere con la matematica e quindi con la mia arte che si nutre anche di numeri. Cerco anch’io l’armonia con i miei numeri, con la mia inesorabile esattezza di composizione. Ho alcune opere in cui mi sono ispirato a Mozart. Le ho fatte capovolte, invertendo la parte alta con quella bassa, dopo aver letto che Mozart per realizzare una sua composizione musicale, non riuscendo a trovare un finale appropriato, capovolse lo spartito, mettendo all’inizio la parte finale della composizione e viceversa. 

 

Articoli correlati