La fiammata dell’arte

Questa volta, ce lo dovete concedere cari lettori, non parliamo di una rassegna in corso, ma di una mostra che… verrà. E vogliamo raccontarvi di un artista con la a maiuscola. Si chia

Questa volta, ce lo dovete concedere cari lettori, non parliamo di una rassegna in corso, ma di una mostra che…  verrà.  E  vogliamo raccontarvi di un artista con la a maiuscola.
Si chiama Franco Puttin ed è nato a Caronno Varesino nel ‘66. E’ un figlio della brughiera e tale continua a essere, non solo perché la sua nascita lo ha collocato lì, ma perché la vita lo ha riportato proprio là dove era cominciata. E’ figlio di questi intricati boschi che sanno di antiche storie, di brigantaggi e di magie fantastiche, di mistiche apparizioni, di elfi e di fate. E vicino al bosco, nell’apparente solitudine del bosco, il Nostro trova più di una ragione di vita. Tanto che scovarlo e parlargli non è sempre facile.
 

Incontro con  Franco Puttin: a una vita comoda ha preferito la  vocazione per la scultura e  per conservarle  seppellisce le sue opere nei boschi

Ma, se lui accetta di conoscerti, incontri l’Arte. La incontri già a partire dal cortile dove vive, negli spazi aperti in cui lavora, attorno a una casa, accordatagli dalla provvidenza, nella terra natale. Qui si sente però di passaggio, perché la sua residenza è ancora nel Mugello, a Barberino, dove ha vissuto felice per diversi anni.  La prima opera che si nota, possente per dimensioni e ispirazione, è un San Girolamo, esposto al Vittoriano, a Roma, nel 2007. L’ideale artistico di Puttin, l’esempio cui guarda, è Gian Lorenzo Bernini. Ci mostra, relegato in un angolo, un notevole ritratto, una testa di argilla che pare fusa in bronzo, dedicata al “suo” maestro: e se poi ci si aggira tra le stanze della casa, dove condivide la sua vita randagia con Ego, il mite bastardino che lo segue ovunque, ci s’i imbatte in una serie di opere, sempre in argilla, pronte per la fusione, che hanno una  pluralità di alti richiami. Sono soavi ritratti che ci ricordano, nella perfezione del tratto, certe teste femminili in terracotta di Rodin, o delicati rimandi alla classicità, come  Amore e Psiche, o esempi, diversi gli uni dagli altri, di sculture animaliste di raffinata fattura, piccoli capolavori apparentabili ad altre prove animalier di Rembrandt Bugatti, o di Lorenzo Vela, o di Ligabue… o ancora dello stesso Rodin. Sono tori o sinuose fiere, tigri o pantere sempre colte in movimenti agili, o teste di cani e di animali domestici, e  altro ancora. Facile, per alcuni che hanno scritto di lui, avvicinarlo all’estroso artista del Po. Com’è facile, per altri, scansare chi sembra troppo fuori dai comuni schemi. La scelta di legarsi all’arte, abbandonando progetti di vita a due e un lavoro scontato, fare il fabbro come suo padre, è arrivata dopo un devastante incidente di moto nel 1998. Ne esce quasi miracolosamente dopo sei mesi di immobilità – persi tutti i denti e rotta una gamba – con l’aiuto di confortanti presenze silenziose, un maturato interesse per l’esempio di Cristo e una nuova voglia di vivere secondo uno stile di vita semplice e puro. Per caso ha iniziato durante l’infermità a manipolare la creta, scoprendo un’istintiva capacità scultorea. Vincendo le rimostranze paterne, decide quindi di sposare l’arte. La decisione è rapida. “Avevo avvertito come una fiammata, come quando uno s’innamora, e dovevo seguire quella chiamata. Ho preso lo zaino e sono partito”.
Per quel suo amore mistico impara a fare la fame, arrangiandosi con mille mestieri – tanti, anche pesanti, e continua a non sottrarsi. Gli piacerebbe certo avere uno spazio in cui poter insegnare a plasmare la materia, come ha fatto già in passato in alcune scuole in Toscana e anche qui, nella sua terra. Si sente comunque un privilegiato, perché dice “sto vivendo una vita speciale “. Rifiutare una vita “normale” non lo ha spaventato, temeva più l’idea di dover vivere secondo gli schemi mentali correnti. Non ha barattato insomma la libertà e la vocazione all’arte e tutto questo ha l’altissimo prezzo dell’incomprensione di tanti. La sente sulla propria pelle, nei discorsi degli altri o nei giri larghi di chi l’incontra in paese, pur avendolo conosciuto fin da bambino. Per la scultura lavora di giorno, ma soprattutto di notte, e s’è venduto persino l’auto per comperare un libro di anatomia, fondamentale per studiare il corpo umano e le sue proporzioni.
Gli chiediamo alcune pezze giustificative di quella sua scelta e ce le mostra. Dal 1998 ad oggi ha realizzato più di ottocento opere, alcune le ha vendute a piccoli collezionisti, altre le ha barattate per vivere, diverse sono state esposte in rassegne in giro per l’Italia, in Toscana, in Lombardia, in Piemonte, in Emilia Romagna, a Roma. E’ tutto documentato in un meticoloso archivio racchiuso in tanti scatoloni: ci sono cataloghi e fotografie, studi per sculture accompagnate da disegni e calcoli, e quaderni in cui annota a penna le sue giornate. Lo fa per scrupolo personale, per metodo, ma anche, ci sembra, quasi dovesse dimostrare al mondo la gran quantità di lavoro di cui si carica. Il doppio lavoro di chi deve guadagnarsi  il pane per vivere e nutrire l’anima con l’arte. La curiosità che ha mosso più di una buona penna giornalistica a scrivere di lui è, oltre al riconoscimento di un indiscusso talento, la sua abitudine di sotterrare le statue nei boschi: non per bizzarria, ma per necessità. Non avendo adeguati spazi per ricoverare le sue opere, come succede a tanti scultori, Puttin le sotterra nei boschi: nelle nostre terre, ma anche nel Mugello e in Valle Anzasca. A Macugnaga, dove ha trovato amici sinceri, dove la vita gli appare genuina come l’aria che si respira, diversi suoi lavori sono accolti nelle baite.
Le particolari tecniche di rifinitura dei tanti soggetti realizzati dall’artista rivelano la difficoltà, non certo una novità nella vita di uno scultore, di avvalersi  di materiali costosi come il marmo o il bronzo. Ma, lavorando con la grafite, o cenere di faggio e vetro fuso, gli riesce di ottenere risultati fantastici – come  nel caso del prediletto ritratto di Bernini – paragonabili a quelli delle opere in bronzo. Le sue capacità gli consentono di lavorare il legno, la pietra, il marmo, la ceramica. Lo dichiarano proprio i tanti lavori fotografati e catalogati in archivio: soggetti religiosi, busti e ritratti maschili e femminili, opere ispirate a purezza descrittiva o a una più imponente classicità, ma anche di modernissima concezione, giocate tra pieni e vuoti , tra luci e ombre, tra realtà e simbolismo. Quel che gli importa è di poter continuare a fare il suo lavoro e di ottenere il giusto apprezzamento nella sua terra. E’ tornato a Caronno qualche anno fa per assistere la madre morente, che lo ha sempre compreso e incoraggiato a seguire la sua strada. Mostra una fotografia di lei e un bel ritratto in creta, i capelli raccolti tirati sulla fronte, un  neo sulla guancia. E tiene tra le mani un disco di Presley, che lei gli aveva regalato, con le parole di Elvis: “Segui quel sogno …dovunque il sogno ti possa condurre”. La scommessa da vincere con la vita, dopo quell’incidente, se la gioca anche per lei, per dimostrarle che non s’era sbagliata e che  quel sogno può farsi realtà. Lui ci crede. “Dov’è la terra bruciata – dice -cresce l’erba nuova”.
 

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