Il motore della crescita ha gli ingranaggi nella manifattura

Alcune parole a volte diventano un mantra. Gli ultimi 8 anni – caratterizzati da una crisi che da congiunturale è diventata strutturale, che da ciclica abbiamo scoperto essere persistente – han

Alcune parole a volte diventano un mantra. Gli ultimi 8 anni – caratterizzati da una crisi che da congiunturale è diventata strutturale, che da ciclica abbiamo scoperto essere persistente – hanno fatto diventare la parola crescita un concetto mistico
Di crescita se ne parla con effetto  taumaturgico (ne parlo, la invoco e quindi mi sento già un po’ meglio).
Di crescita se ne parla con effetto scaramantico (ne parlo, la evoco … la sento già tra di noi).
Di crescita se ne parla con effetto di annuncio politico (ne parlo, ci sto pensando… la includo nelle mie previsioni. Prima o poi verrà).
Di crescita bisognerebbe parlarne un poco più spesso con “lo sguardo  del meccanico”. Cioè di colui che ne studia gli ingranaggi, ne capisce le interconnessioni e sa dove mettere le mani per riavviare il motore.

L’effetto moltiplicatore sugli altri settori, che dalla sua crescita traggono vantaggi in termini di commesse e lavoro. La capacità innovativa delle sue imprese. Il suo ruolo di garante della solvibilità internazionale dell’intero Paese. Ecco perché l’Italia può ripartire solo puntando sull’industria

Ed è proprio volendo guardare alla meccanica della crescita che si apprezza il recente contributo  di Livio Romano pubblicato dal Csc (Centro Studi Confindustria) che cerca innanzitutto di individuare dove sia posizionato il motore.
La soluzione  c’è. Non è un mistero. Il motore è il tessuto manifatturiero italiano.
È da lì  che bisogna ripartire.
Non è un’affermazione di principio. E’ una realtà dati alla mano.
Lo è per una questione di  contributo alla generazione del Pil.
Lo è per una questione di sostenibilità della bilancia  commerciale, con un occhio particolare  alla sostenibilità energetica del nostro Paese.
Lo è, soprattutto, per questione di capacità innovativa.
Partiamo dal primo punto: l’importanza del manifatturiero italiano appare sottostimata se valutata solo in termini di quota sul Pil. La manifattura va giudicata anche per il numero e la quantità  di scambi positivi che riesce a generare nei rapporti con gli altri settori. La maggior domanda di beni manufatti innesca un effetto moltiplicatore sugli altri settori perché richiede utilizzo di materie prime, input intermedi ed una quantità di servizi specializzati, per i quali altrimenti con ci sarebbe richiesta (vedi grafico).
In virtù di questa sua centralità negli scambi intersettoriali, il manifatturiero fa sì che per ogni variazione nella produzione finale di beni manufatti di 1 euro si generi una variazione quasi doppia  nella produzione complessiva dell’intera economia (1,83 euro). Questo grazie – ricorda il Centro Studi Confindustria – ad un effetto cascata indotto dalla maggior domanda di input intermedi, più delle metà dei quali non generati nel manifatturiero. A titolo di esempio questo effetto moltiplicatore si misura in 1,34 euro nel comparto utilities, 1,60 nella finanza e 1,76 nelle costruzioni.
Tenuto conto di questa capacità di trascinamento nei confronti di altri comparti si stima  che l’industria di trasformazione italiana eserciti un peso, diretto ed indiretto, sul Pil pari al 23% (quasi 8 punti percentuali in più rispetto al 15, 4% misurato a dati grezzi). Nel caso della provincia di Varese tali percentuali sono ancor più consistenti: con un valore aggiunto manifatturiero che raggiunge il 30%.

La manifattura va giudicata anche per il numero e la quantità  di scambi positivi che riesce a generare nei rapporti con gli altri settori

Passiamo al secondo punto: dal manifatturiero dipende la nostra “solvibilità internazionale”. Da questo comparto provengono la quasi totalità di beni esportabili ( l’82,3%) per un valore pari a circa un quarto del Pil. Qui si genera gran parte del saldo positivo del commercio estero italiano. È un valore che ci permette di pagare la bolletta energetica del nostro Paese e di finanziare le importazioni di beni e risorse naturali  di cui siamo, naturalmente, poveri. Avere, poi, una bilancia commerciale positiva grazie al manifatturiero è un’ottima carta da visita di credibilità per un Paese che è strutturalmente afflitto dal peso del debito pubblico cumulato negli scorsi  decenni. E anche su questo fronte il Varesotto dà il proprio contributo con un export che supera il valore delle importazioni di 4,2 miliardi (dato 2015).
Infine il terzo punto, esaminato dal Csc, è quello riguardante la capacità innovativa. In questo caso la centralità dell’industria di trasformazione consiste nella capacità di generare gran parte dei guadagni di produttività che poi si diffondono all’intero sistema economico. Nel manifatturiero si sviluppano le innovazioni di processo che innalzano la produttività interna e favoriscono i recuperi competitivi. Lì si generano le innovazioni di prodotti che inducono cambiamenti anche in altri settori. Pensiamo a tutte le opportunità che arrivano dal mondo della digitalizzazione, dell’Internet of Things, dell’uso dei Big Data. Tutte innovazioni che contribuiscono a trasformare le modalità di fruizione dei beni, la loro distribuzione e tutto il mondo dei servizi connessi.
E’ nella manifattura che si realizza la più elevata quota di spesa privata in ricerca e sviluppo. In Italia siamo vicini al 72%, in linea con Finlandia e Svezia, meno della  Germania che si colloca all’86%, ma sicuramente più di Francia, Spagna e Regno Unito. Ed il numero delle imprese italiane che hanno svolto attività di innovazione è aumentato nel corso degli ultimi anni e sono arrivate a rappresentare il 41,5% del totale delle imprese nel triennio 2010-2012, garantendo un contributo alla bilancia commerciale delle esportazioni di prodotti a media e ad alta tecnologia superiore alla media Ue.
E qui che bisogna investire. E non lo dice solo Confindustria. Lo riconosce esplicitamente anche il Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) il cui Programma Nazionale presentato lo scorso 2 maggio,  si dà l’obiettivo di non essere  un mero adempimento legislativo, bensì di “diventare una piattaforma per guidare la competitività industriale e lo sviluppo del Paese attraverso gli strumenti della conoscenza”.
Le potenzialità, quindi,ci sono tutte e vanno messe in campo per poter superare la grave impasse economica di questi anni. I dati parlano chiaro: l’economia italiana è faticosamente avviata sulla strada della risalita dopo una doppia recessione che dal 2008 ha fatto calare il Pil del 9,1%. Circa la metà di questa diminuzione ha avuto purtroppo carattere persistente non ciclico ed è frutto della distruzione della capacità produttiva che, a sua volta, si è tradotta in riduzione permanente dell’occupazione, delle domanda interna e, in ultima analisi, del potenziale di crescita del Paese.
In queste condizioni per tornare a crescere non è sufficiente sperare nello sviluppo degli altri  Paesi, vuoi che siano dell’Europa, vuoi che siano i Paesi di nuova industrializzazione, quei BRICs che qualche anno fa facevano gridare al miracolo e che ora stanno rallentando tanto da far titolare Bloomberg “It’s the end of BRICs era”.

La ricchezza prodotta dalle imprese manifatturiere permette di pagare la bolletta energetica del nostro Paese e di finanziare le importazioni di beni e risorse naturali  di cui siamo, naturalmente, poveri

Per tornare a crescere in maniera stabile bisogna trovare il modo di superare gli effetti delle due recessioni che hanno lasciato sul campo disoccupati di difficile reimpiego, che hanno visto in questi anni impoverirsi  le proprie competenze a causa della prolungata inattività.
La ricetta del Centro Studi Confindustria che è sostanzialmente in linea con le indicazioni dell’Ocse e dell’Fmi è quella di “ricorrere alle riforme strutturali per liberare risorse nel sistema economico da impegnare a fini produttivi, sottraendole a interessi corporativi, a un’eccessiva imposizione  fiscale e a procedimenti amministrativi lenti e dagli esiti troppo spesso incerti per le imprese ed i cittadini.”.
Ma da sole, va detto, le riforme rischiano di non essere sufficienti se, contemporaneamente, non si aiuta il manifatturiero a mettersi in moto favorendone la transizione verso quella “contemporaneità”  richiamata anche dal Presidente Riccardo Comerio nell’Assemblea Generale dell’Unione degli Industriali della Provincia di Varese. Una contemporaneità costruita da “coloro che sanno cogliere gli stimoli di un sistema produttivo che si sta trasformando nei processi e nei prodotti, di modelli distributivi che si sono rivoluzionati e di beni (“cose”) che sempre più interagiscono con i consumatori”. Con noi.
E’ verso questo orizzonte che bisogna puntare. E’ lì che il “meccanico” (anzi il “meccatronico”) deve indirizzare gli sforzi per aggiustare il motore dalla ripresa.
E allora attendiamo con interesse, curiosità ed anche con speranza il nuovo documento di politica industriale “Manifattura Italia”!

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