Il made in Italy rischia un altro tsunami cinese
Più che un’ondata rischia di essere uno tsunami. Di nuovo. Una marea di prodotti cinesi che potrebbe riversarsi sul mercato europeo spazzando via imprese e posti di lavoro. E tra le quatt
Più che un’ondata rischia di essere uno tsunami. Di nuovo. Una marea di prodotti cinesi che potrebbe riversarsi sul mercato europeo spazzando via imprese e posti di lavoro. E tra le quattro principali economie Ue, l’Italia, ancora una volta, rischia di pagare il prezzo più alto. Con uno scenario ben peggiore di quello che alcuni analisti pronosticano per Germania, Francia e Gran Bretagna. E a spalancare le porte ad un nuovo e repentino incremento delle importazioni provenienti da Pechino rischia di essere proprio una decisione dell’Unione Europea. “Un’iniziativa suicida”, come l’ha definita la stessa Confindustria. Il problema sta nel fatto che nelle scorse settimane la Commissione Europea ha presentato, agli Stati membri riuniti nel Consiglio del Commercio della Ue, i capisaldi di una proposta legislativa per attribuire lo status di “Stato di Economia di Mercato” alla Cina. Una sigla di tre lettere: MES che sono come un bollino di garanzia su un sistema economico terzo. Come un certificato che, però, non rimane come un premio ad honorem, ma che ha risvolti pratici importanti. In pratica affidare l’etichetta MES alla Cina, vorrebbe dire per l’Europa abbassare qualsiasi guardia di fronte alle importazioni cinesi, nei cui confronti gli Stati europei non potrebbero più applicare le attuali misure di difesa commerciale. Il sistema antidumping verrebbe meno. Un atto di fiducia che fino ad oggi non hanno concesso alla Cina né gli Stati Uniti, né il Canada, né Giappone, né l’India. Tale concessione “costituirebbe un’autentica abiura da parte della Ue ai principi del libero mercato e avrebbe un impatto devastante sulla nostra industria e sul made in Italy. Con questo riconoscimento la concorrenza cinese, per molti aspetti già sleale, sarebbe ancora più favorita, con enormi vantaggi in termini di costi dell’energia, del lavoro e del rispetto delle norme ambientali”. Queste le parole utilizzate da Confindustria in una nota per sottolineare come la rappresentanza degli industriali italiani sia “nettamente contraria a ogni forma di apertura”. E con essa anche tutte le associazioni imprenditoriali europee racchiuse nella BusinessEurope, la cui Presidente, l’italiana Emma Marceglia, ha già lamentato in una lettera inviata alla Commissaria Ue al Commercio, Cecilia Malmström, gli impatti devastanti che la concessione del MES alla Cina potrebbe avere sul sistema produttivo continentale.
La Ue ha cominciato a lavorare su un dossier che potrebbe arrivare a riconoscere alla Cina lo status di Economia di Mercato. Risultato: eliminazione di ogni barriera antidumping, aumenti delle importazioni dall’Asia fino al 50%, con 3,5 milioni di posti di lavoro a rischio in Europa e più di 416mila solo in Italia
Conseguenze di cui esiste già una proiezione. A farla è stato l’Economic Policy Institute, un’istituto di ricerca no-profit statunitense. Le cui tabelle possono essere definite solamente col termine “allarmanti”. Se a fine 2016 la Ue cominciasse a considerare MES la Cina nei successivi 3-5 anni le le importazioni dalla Cina aumenterebbero in Europa nel migliore dei casi del 25%, nel peggiore del 50%. Prendendo questi due estremi della forchetta l’Istituto Usa ha ipotizzato due diversi scenari: uno conservativo, uno particolarmente pessimista. In quello, chiamiamolo così, conservativo l’aumento del 25% dell’import cinese si tradurrebbe nei prossimi 3-5 anni in una perdita di Pil dell’1%, per un totale di 114,1 miliardi di euro di produzione di valore persa. Se le importazioni made in Dragone aumentassero addirittura del 50% (parliamo di un’invasione di beni per un valore aggiuntivo di 142 miliardi di euro) il Pil europeo calerebbe del 2%, ossia di 228 miliardi. Sul mercato occupazionale, ciò avrebbe conseguenze devastanti. Nella migliore delle ipotesi in Europa perderebbero il lavoro 1,7 milioni di persone. Nella peggiore, i disoccupati creati sarebbero 3,5 milioni. In termini percentuali a pagare lo scotto maggiore, secondo l’Economic Policy Institute, sarebbero Bulgaria, Ungheria e Romania, che rischiano di perdere fino al 2,7% dei propri posti di lavoro.
L’Italia è, tra le quattro principali economie europee, quella che rischia di pagare il conto più salato in termini di occupati. Ben più di Germania, Francia e Gran Bretagna
Ma all’Italia non andrebbe meglio. Anzi: il nostro Paese sarebbe quello che tra le quattro maggiori economie continentali rischia di più. In termini di posti di lavoro parliamo di perdere per strada tra lo 0,9% e l’1,9% dei nostri occupati. La Germania rischia, nel peggiore dei casi, l’1,7%, la Francia l’1,5%, la Gran Bretagna l’1,4%. Altro che Jobs Act. Il mercato del lavoro italiano rischia di prendere una batosta da cui difficilmente riuscirebbe a riprendersi nel medio periodo. Sono i valori assoluti dei posti di lavoro che rischiamo di perdere secondo i ricercatori americani a dare il senso di allarme. Si va dai 207.800 occupati in meno nel giro di 3-5 anni, nel migliori dei casi, alla peggiore delle ipotesi che arriva a temere un impatto di 416.300 lavoratori in meno. Uno tsunami, appunto. Che ancora una volta espone in primo luogo l’industria tessile dove i posti a rischio potrebbero essere 71.200. Questo il settore del made in Italy che pagherebbe il conto più salato. Seguito dall’elettronica (25.100 posti a rischio), dai prodotti in metallo (18.600), dai macchinari (12.700). La plastica italiana rischia di lasciare sul campo 7.100 lavoratori, la chimica 4.300. Ma non c’è solo l’industria. Per via indiretta anche il settore dei servizi potrebbe veder aumentare il proprio tasso di disoccupazione con 188.100 posti in meno.
Confindustria: “Chiediamo al Governo di intervenire e bloccare sul nascere un’iniziativa suicida dagli impatti devastanti”
“Chiediamo ufficialmente al nostro Governo, di intervenire per bloccare sul nascere un’iniziativa suicida”, chiosa una Confindustria preoccupata. “Prima di iniziare ogni processo legislativo – è la posizione suggerita dagli industriali italiani – sono, infatti, necessari alcuni passi preliminari: la Ue deve pronunciarsi sulla presunta automaticità del riconoscimento; deve effettuare un’approfondita analisi di impatto prima di concepire qualsivoglia modifica alla legislazione di base antidumping e deve coordinarsi strettamente con i partner globali, soprattutto gli Stati Uniti”. Perché, è la conclusione di Viale dell’Astronomia “essere spiazzati da un concorrente più bravo ci sta, ma regalare le nostre quote di mercato per ragioni politiche no. Su questo è bene essere chiari”.