Il futuro dello smart working a Varese
Con lo scoppio della pandemia il “lavoro agile” è entrato prepotentemente, quasi in maniera forzata e senza tante possibilità di scelta, nell’organizzazione del lavoro
Con lo scoppio della pandemia il “lavoro agile” è entrato prepotentemente, quasi in maniera forzata e senza tante possibilità di scelta, nell’organizzazione
del lavoro delle imprese del territorio. Ma da un’analisi dell’Ufficio Studi Univa emerge un dato non scontato: le aziende che alla fine dell’emergenza
continueranno ad adottarlo saranno il doppio di quelle che già lo avevano sperimentato prima del Covid. Anche da qui passa la nuova normalità
L’emergenza pandemica ha rappresentato il “cigno nero” del secolo, sconvolgendo interi sistemi economici, sociali e culturali. Specialmente il lavoro, è finito sotto i riflettori, vedendo l’emergere di nuove modalità di “smart working”. Un’analisi condotta dall’Ufficio Studi dell’Unione degli Industriali della Provincia di Varese prova a rispondere ai principali quesiti sulle forme che un tale fenomeno ha assunto a livello territoriale.
Cosa è successo a Varese?
Primo obiettivo dell’Ufficio Studi Univa è stato quello di dare un quadro del rapporto delle imprese con lo “smart working” nelle sue varie declinazioni prima, durante e dopo la pandemia. I dati utilizzati
per le elaborazioni sono stati raccolti attraverso l’Indagine campionaria di Confindustria sul lavoro (edizione 2021 – dati 2020) e hanno riguardato 183 imprese del territorio, per un totale di 33.841 dipendenti, di cui la maggior parte afferenti all’industria (82%, contro 6% dei servizi e il 12% di altre attività) e alle micro e piccole imprese (il 56%, contro il 44% delle medie e grandi aziende).
I primi risultati a spiccare sono relativi all’impatto della pandemia sull’utilizzo dello “smart working”. Innanzitutto, il suo – prevedibile – aumento esponenziale nel 2020: prima dello scoppio della pandemia solo una minor parte delle aziende stipulava accordi individuali e/o collettivi a favore del cosiddetto “lavoro agile” (16,4%), mentre con l’arrivo del Covid-19 e i relativi lockdown la maggior parte delle imprese è ricorsa al “lavoro agile di emergenza” (65,6% al massimo utilizzo). Situazione che ha avuto un chiaro riflesso sulla quantità di lavoratori coinvolti, triplicata con la pandemia (da 7,3% a 22,9% nei momenti di massimo utilizzo).
Fin qui, tutto prevedibile. In un certo senso, viste le normative sul distanziamento sociale e i primi blocchi produttivi, l’affermazione improvvisa dello “smart working” è stato un fenomeno forzato, quasi senza scelta. Molto meno scontato è, invece, il consolidamento del fenomeno atteso nel futuro e fotografato dai dati raccolti dall’Ufficio Studi Univa: ben il doppio delle imprese rispetto al pre-pandemia
prevede di mantenerlo (31,1% contro 16,4%), avvicinandosi anche al concetto anglosassone di “smart working”. Nei fatti, tra queste imprese che sceglieranno di conservare tale modalità di lavoro, la maggior parte (61,4%) prevede di renderla ancora più strutturata ed estesa, per esempio con la riorganizzazione degli spazi di lavoro e la ridefinizione delle retribuzioni sugli obiettivi.
Quali le differenze tra le imprese?
Tuttavia, il fenomeno non interessa ugualmente tutte le aziende. Prima della pandemia, la diffusione del “lavoro agile” interessava maggiormente le imprese dei servizi (45,5%) e le grandi imprese (55%). Durante la pandemia, tutte le grandi aziende del campione hanno sperimentato il “lavoro agile di emergenza”, mentre il dato scende alla metà per le piccole imprese e a poco meno (45,2%) per le micro; inoltre, anche in questo caso i servizi vedono il fenomeno più diffuso (81,8%) rispetto all’industria (61,3%), nella quale, per loro natura, alcune fasi produttive non possono essere effettuate “da remoto”. Nel futuro, le imprese dei servizi (54,5%) e di grandi dimensioni (81,8%) dovrebbero continuare a spiccare con varie forme di “smart working”, ma anche nell’industria più di un’impresa su quattro lo utilizzerà. Per quanto riguarda invece le funzioni aziendali, prevalgono in tutte e tre le fasi i sistemi informativi e la gestione del personale, perché intrinsecamente “flessibili” a livello operativo e funzionali alla transizione tecnologica-organizzativa necessaria per lo “smart working” stesso.
Cosa accadrà nel lungo periodo?
Pur con la consapevolezza di essere ancora in un quadro emergenziale, sono già evidenti gli effetti dirompenti della pandemia sulle imprese di Varese. Molte più aziende prevedono di ricorrere allo “smart working”, facendolo diventare sempre più una nuova “filosofia manageriale” a tutto tondo. Il prossimo passo per renderla una prassi diffusa è passare da una regolamentazione di stampo unilaterale da parte dell’Esecutivo all’ascolto delle parti sociali, con la loro capacità di rappresentare le istanze della comunità e favorire una traduzione legislativa organica e consistente nel tempo.
Cosa si intende per “smart working”?
Ci si può riferire allo “smart working” concepito nel mondo anglosassone: un approccio innovativo all’intera organizzazione del lavoro, flessibile per tempi e luoghi, con retribuzione parametrata sugli
obiettivi. O si può intendere il “lavoro agile” normato dal nostro ordinamento agli artt. 18-23, Legge n. 81/2017, che cerca di implementare giuridicamente lo smart working sopracitato, costituendo nella pratica una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato alternata tra i locali aziendali e l’esterno, stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi ed eventuale utilizzo della tecnologia digitale. Tuttavia, lo “smart working” diventato noto con la pandemia è il cosiddetto “lavoro agile di emergenza”, normato dal Dpcm 23 febbraio 2020 (in attuazione del Decreto Legge 6/2020) in riferimento alle cosiddette «zone rosse» e poi esteso a tutto il territorio nazionale con il Dpcm del 1° marzo 2020. Il nuovo istituto ha trasposto il “lavoro di ufficio” nel domicilio dei dipendenti, con l’utilizzo “obbligato” della tecnologia digitale e ricorrendo a orari di lavoro sostanzialmente coincidenti con quelli tradizionali.
Una modalità di lavoro emergenziale che corrisponde più a un “remote working forzato” che alla flessibilità per tecnologie, luoghi, tempi e volontà dello smart working vero e proprio.