Corpi sociali intermedi in crisi di identità?
Una situazione stagnante che vede l’Italia in scacco: stiamo parlando della crisi dei corpi intermedi, ovvero di quel cortocircuito che ha colpito da anni sindacati e soggetti di rappresentanza
Una situazione stagnante che vede l’Italia in scacco: stiamo parlando della crisi dei corpi intermedi, ovvero di quel cortocircuito che ha colpito da anni sindacati e soggetti di rappresentanza e che, oggi più che mai, emerge nelle cronache dei giornali. Come? Sotto forma di una sfida che non riesce a chiudersi, quella relativa al nuovo accordo interconfederale sul tema della rappresentatività e del prospettato accordo sul salario minimo. Un tassello che ben rappresenta rischi, ma anche possibili vie di uscita.
Un’analisi di Giuseppe Sabella pubblicata in volume senza peli sulla lingua. Con prefazione del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi
Un punto di vista d’insieme ce lo fornisce Giuseppe Sabella, direttore di Think-in e autore di un saggio che nel suo titolo dice già molto, gettando un sasso nello stagno “Da Torino a Roma: attacco al sindacato – La crisi dei corpi intermedi e il futuro della rappresentanza” (Guerini e Associati) la cui introduzione è firmata dal Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi.
Partiamo proprio dalla crisi dei corpi intermedi: da dove arriva e, soprattutto, siamo un Paese anomalo oppure si tratta di qualcosa che accade anche altrove?
La crisi dei corpi intermedi è innanzitutto di matrice antropologica, ovvero è connessa a cambiamenti socio-culturali che spingono verso un sempre maggior individualismo. Da questo punto di vista si tratta di un problema comune e non solo italiano. Tuttavia, nel nostro Paese vi è stata anche una particolare involuzione del sindacato negli ultimi 20 anni che ha acuito notevolmente il fenomeno: il sindacato ha rinunciato ad essere soggetto attivo per la trasformazione economico-sociale e si è preoccupato solo di gestire e garantire il proprio consenso e la propria base, in ragione di interessi precostituiti.
Dove ci ha portati concretamente tutto questo a livello pratico?
Ha condotto a una vera e propria crisi della rappresentanza che oggi è evidente, a cui non sono mancate delle reazioni forti. Si pensi al caso Fiat. Siamo in una fase stagnate dal punto di vista delle relazioni industriali: l’ultimo accordo interconfederale, quello del 2009, è scaduto da oltre due anni e non si arriva ad una nuova intesa. Ciò può avere conseguenze pericolose.
La crisi dei corpi intermedi è innanzitutto di matrice antropologica, ovvero è connessa a cambiamenti socio-culturali che spingono verso un sempre maggior individualismo
Oggi il Governo ipotizza anche una legge sulla rappresentanza per uscire dallo stallo. Secondo lei è possibile che la svolta arrivi da nuove regole?
Una riforma, per quanto buona possa essere, è pur sempre qualcosa di calato dall’alto che introduce un sistema di regolamentazione in riferimento ad un quadro sanzionatorio: in altre parole, una legge sulla rappresentanza acuirebbe i contenziosi e soprattutto aprirebbe a delle sentenze i cui effetti non sono prevedibili. A me pare molto rischioso andare in questa direzione. Piuttosto, il testo unico sulla rappresentanza va portato a regime, deve essere attuato. Le parti sono quindi chiamate ad una prova di responsabilità.
Un tavolo di prova per queste responsabilità può essere indicato nella discussione relativa al salario minimo, una questione che vede oramai l’Italia fanalino di coda rispetto agli altri Paesi Europei
Rispetto agli altri paesi, in Italia le parti sono ad oggi giustamente riuscite, salvo qualche episodio, a proteggere l’autonomia della materia dalle intrusioni del legislatore. Il governo, circa il salario minimo, ha compreso la delicatezza della materia perché le criticità sono molto forti. In primis, quale futuro può esserci per i sindacati in Italia se i minimi retributivi vengono fissati dalla legge? E, in secondo luogo, le aziende troveranno ancora conveniente associarsi alle loro rappresentanze? Poi c’è il serio rischio che il legislatore fissi il minimum un po’ più in alto di quanto possa essere auspicato dal sistema datoriale, per evitare rischi di impopolarità. Ecco allora che questa situazione, a guardarla bene, offre importanti opportunità di confronto indispensabili per accettare la sfida del nuovo ciclo economico.
Un nuovo ciclo economico che però stenta anch’esso a decollare, complice la crisi in atto: quali sono a suo parere le chiavi di lettura per il futuro?
Io credo che l’intero mondo dell’impresa debba avere una reazione di orgoglio. Come spesso ha ripetuto Giorgio Squinzi, nel nostro Paese c’è sempre stata una grande attenzione al mondo del lavoro, si è esagerato con le garanzie che a questo si è dato. Ma tutto origina da una questione di fondo, culturale, che non riconosce all’impresa il ruolo di soggetto primo del sistema economico, creatore di lavoro. La speranza di ripresa dell’economia, e con essa del lavoro, è legata proprio alla capacità delle imprese, che però sono soffocate dal peso di fisco e burocrazia. Certo anche l’impresa italiana ha le sue mancanze, legate a processi di innovazione che spesso arrivano tardi, come reazione ai cambiamenti. Resta però un dato di fatto ineludibile: all’inizio del terzo millennio eravamo la quinta potenza economica del mondo. Questo significa che siamo un paese di grandi capacità e che abbiamo mezzi per ripartire e per tornare ad essere protagonisti.