“C’era una volta…” sui social

Potenti strumenti di marketing, ma che rischiano di diventare un boomerang se non ben gestite e costruite: ecco come le “storie temporanee” di Instagram, Whatsapp e Facebook stanno cambia

Potenti strumenti di marketing, ma che rischiano di diventare un boomerang se non ben gestite e costruite: ecco come le “storie temporanee” di Instagram, Whatsapp e Facebook stanno cambiando il modo di raccontarsi

Cose che cambiano. In principio era Snapchat, ora (letteralmente mentre scriviamo questo articolo) si parla di un prossimo sistema di sincronizzazione tra le storie di Instagram e quelle di Facebook. Una novità al giorno, praticamente.
Ma fermiamoci un attimo. Anzi, facciamo un passo indietro per chi aspettava la terza riga per cambiare articolo perché “non mi interessa e non capisco”. Cosa sono le storie digitali e perché dovrebbero interessare soprattutto quelli che… “non mi interessa e non capisco”?

Le storie sono contenuti dei social media caratterizzati da una durata limitata: foto, audio, video, testi, dirette e chi più ne ha più ne metta. Contenuti che, sulla carta – se così si può dire – spariscono dopo circa 24 ore. Contenuti volatili che, dunque, non lasciano (o non dovrebbero lasciare) traccia di sé e che quindi hanno il fascino dell’effimero. Un fascino che li rende molto attraenti ad un pubblico di tutte le età e che ne ha decretato il successo: basti pensare (anche per chi non si addentra nei meandri di Instagram & C.) agli aggiornamenti di stato di Whatsapp che raccontano molto di quello che fanno amici e conoscenti. Qualche numero a conferma della percezione? Sono 500 milioni (il dato è di settembre) gli iscritti ad Instagram nel mondo, 200 milioni in più rispetto ad un anno fa prima dell’introduzione delle storie: segno che sono proprio queste ad averne decretato la crescita.  

Le storie piacciono perché ci permettono di capire il valore delle persone e del loro lavoro, di ciò che creano. Qualcosa che si è perso nel tempo e che ora i social permettono di recuperare

Una bomba per il marketing che da subito ne ha colto le potenzialità, ben oltre l’affermazione del brand e le pianificazioni strategiche a lungo termine, anche perché le storie sono sì temporanee ma tecnicamente molto strutturate: basta la foto giusta – Chiara Ferragni docet – con un link messo bene che accompagni al sito per la vendita e l’acquisto di un prodotto è fatto in un click. Tanto più che le possibilità grafiche e di personalizzazione delle storie, in particolare di Instagram, sono infinite ed è possibile raggiungere in maniera raffinata ogni tipo di target. Senza parlare delle possibilità di geolocalizzare e taggare la foto che, in parole semplici per i “non mi interessa e non  capisco”, significa arrivare a colpire un target con una precisione millimetrica. In breve, le storie fanno vendere.

Da un punto di vista culturale, invece, la faccenda si complica ed è su questo che bisognerebbe riflettere e, in particolare, dovrebbero farlo gli adulti. A dispetto del termine storia, i contenuti social temporanei non rappresentano una narrazione ma sono piuttosto un’accozzaglia, più o meno di qualità, di emozioni. Grosso modo, un po’ l’equivalente contemporaneo della trasmissione Blob ma senza una regia: nelle mani giuste sono un viaggio di stimoli ed emozioni in grado di trasmettere una sorta di racconto, nelle mani sbagliate, nel senso di inesperte o poco sensibili in senso lato, sono un pout pourry di scorci di vita, anche privata (anche privata altrui!), buttati nel mare di informazioni digitali.

Che male c’è? Si potrebbe chiedere. Nessuno: le storie temporanee raccontano di noi, secondo i nostri gusti e la nostra libertà non diversamente da tutto quello che facciamo a scuola, al lavoro e nella vita privata. Niente contro questa risposta, se non fosse che la temporaneità del contenuto, lo rende agli occhi dell’utenza, soprattutto giovane, meno di valore. L’idea superficiale che un contenuto a tempo permetta di sfuggire al controllo dei genitori ad esempio è piuttosto radicata in un pubblico di giovanissimi che, anzi, è alla continua ricerca di spazi digitali nascosti e potenzialmente pericolosi come il recente Thiscrush.com.

L’uso delle storie sregolato è poi spesso frutto dell’errata concezione che poi spariscano. In realtà, nessuna tecnologia può cancellare un tatuaggio digitale, seppur all’apparenza volatile: gli strumenti per salvare un’informazione sono infiniti e nemmeno troppo raffinati. I fattori di pericolo sono molti, proporzionati al fatto che una buona fetta di adulti, insegnanti e genitori, non controlla l’attività digitale dei ragazzi e spesso non sarebbe nemmeno in grado di farlo. Eppure i rischi non sono pochi. Un esempio famoso per tutti è rappresentato dalle avventure intime estive del rapper Gue Pequegno: una manciata di secondi di una storia decisamente hard, e subito cancellata, non sono sfuggiti ai follower, diventando virali fino a raggiungere i paginoni dei quotidiani nazionali. Di carta!

Rischi a parte le storie sono un meraviglioso strumento per fare rete e raccontare cose belle. Mentre scriviamo abbiamo attivato una storia di Instagram con il relativo sondaggio da cui emerge che questo sistema piace all’85% del campione. “Le storie piacciono perché ci permettono di capire il valore delle persone e del lavoro, di ciò che creano. Qualcosa che si è perso”, commenta la giornalista Rosy Battaglia. Sulla stessa linea la collega e blogger Alessandra Favaro aka (alias per i meno social) Blogtrotter: “Le storie servono per comunicare il momento, perfette per seguire gli amici ma anche chi le usa per dare notizie come una rassegna stampa”. Più romantica la varesina Lorena D’Amato: “Le storie mi piacciono perché spero sempre nel lieto fine”.  Che sia questo il segreto del loro successo? Quel che è certo è che il successo delle storie è storia. 

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