Autorizzazione Unica Ambientale: tempi biblici
“Le imprese hanno bisogno di normalità amministrativa e legislativa. Noi non chiediamo niente di eccezionale, solo che le istituzioni siano veloci nel dare risposta alle nostre esigenze.
“Le imprese hanno bisogno di normalità amministrativa e legislativa. Noi non chiediamo niente di eccezionale, solo che le istituzioni siano veloci nel dare risposta alle nostre esigenze. Non possiamo combattere contro la burocrazia da una parte e dall’altra pensare allo sviluppo di nuovi prodotti. Perdiamo tempo sulle scartoffie, sottraendolo al nostro lavoro”. La denuncia fatta durante un’intervista da un imprenditore del territorio non più di qualche settimana fa è quella di un intero sistema economico. Locale e nazionale. Non importa chi abbia detto queste parole. Esse esprimono, infatti, il sentimento di un’intera categoria. Quella dei titolari d’impresa. Ma cosa intendono gli imprenditori con l’espressione “lentezza burocratica”? Un esempio concreto è quello del procedimento di richiesta dell’Autorizzazione Unica Ambientale. In sigla AUA. Il cui suono alla lettura già dà, di per sé, il senso della paura. Per le tempistiche di rilascio, soprattutto. Il problema coinvolge molte attività. Decine solo in provincia di Varese.
L’AUA è in pratica il via libera da parte della Pubblica Amministrazione alla richiesta di un’impresa di insediare una nuova attività produttiva o di modificare una esistente. Ecco il racconto di come un percorso burocratico può tenere bloccato lo sviluppo di un territorio e la sua capacità di creare lavoro
Basta un dato per capire la portata del problema. Da giugno 2013 – quando è entrato in vigore il nuovo regolamento per il rilascio dell’AUA e sono cambiate le modalità di inoltro delle richieste da parte delle imprese – a metà 2015 sono state rilasciate in provincia di Varese 248 autorizzazioni contro un totale di 506 domande. Ciò vuol dire che è stata soddisfatta meno della metà delle richieste di Autorizzazione Unica Ambientale presentate alla Pubblica Amministrazione nel Varesotto. Il 51% delle richieste inevase sono, in pratica, investimenti produttivi fermi. Aziende che vogliono insediare nuovi capannoni e cominciare nuove produzioni o imprese che vogliono ampliare la propria capacità produttiva, ma che non possono lavorare e creare valore per il territorio. Commesse congelate. In alcuni casi, posti di lavoro che non si creano.
L’AUA deve essere richiesta dalle imprese per ampliamenti di stabilimenti già esistenti o per iniziare una nuova attività. Ciò per tradurre su documenti quale sarà l’impatto ambientale in termini di rumore, aria e acqua. Un iter che per legge dovrebbe durare non più di 150 giorni e che invece si protrae mediamente anche per un anno e mezzo. Ecco cosa intendono gli imprenditori per tempi burocratici che non coincidono con le richieste del mercato. Pensate ad un’azienda che deve aumentare la propria capacità di realizzare un determinato prodotto a fronte di nuove commesse. Come può programmare un tale allargamento di fronte al punto interrogativo sul quando avrà l’autorizzazione necessaria? Perché senza AUA tutto rimane fermo.
Eppure il meccanismo di inoltro della richiesta da parte delle imprese e di rilascio dell’autorizzazione da parte degli organi competenti, sulla carta, è semplice e lineare. Semplificato e automatizzato anche di recente. Dal nuovo regolamento del giugno 2013, per l’appunto, e da alcune iniziative di Regione Lombardia. Un’impresa non deve fare altro che scegliere una delle piattaforme on-line per l’inoltro della richiesta (ne sono disponibili diverse: quella di più frequente utilizzo è di Regione Lombardia, un’altra è stata creata dal Sistema Camerale, altre ancora sono sviluppate da privati). Dopodiché l’impresa deve compilare la modulistica direttamente sul web e allegare la documentazione richiesta. I doveri dell’impresa finiscono qui. A questo punto la richiesta viene inoltrata automaticamente allo Sportello Unico del Comune dove l’azienda intende operare. Lo Sportello Unico Attività Produttive esiste in ogni amministrazione comunale e rappresenta l’unico soggetto pubblico, l’unico punto di riferimento per tutti i procedimenti amministrativi che riguardino l’esercizio di attività d’impresa. Una definizione che contiene già in sé l’intento di semplificare la vita degli imprenditori. E così dovrebbe essere anche per l’AUA. L’addetto allo Sportello Unico del Comune che riceve la notifica della richiesta da parte dell’impresa, infatti, ha a disposizione 30 giorni per controllare che formalmente la domanda sia corretta e che contenga tutti i documenti necessari. Nessuna valutazione di merito. Solo un controllo di forma. Dopodiché deve dare comunicazione alla Provincia che tutto è ok nella documentazione. Solo allora parte la valutazione di merito e il confronto diretto con l’azienda sull’impatto ambientale. Di compito provinciale, appunto. Il problema, però, è che la documentazione si incaglia troppe volte al primo passaggio. Gli Sportelli Unici raramente rispettano i 30 giorni per comunicare alla Provincia il via libera allo studio dell’AUA. I motivi? Sono i più vari e cambiano da Comune a Comune. La formazione del personale preposto, in alcuni casi. Incomunicabilità dei sistemi informativi dei Comuni con quelli della Provincia, in altre.
Le domande delle imprese si fermano spesso, senza un reale motivo, all’esame formale degli Sportelli Unici dei Comuni
A volte basterebbe l’aggiornamento o la manutenzione del sofware. Altre volte un corso per il personale, per fornire le competenze necessarie. Come già peraltro ha cercato di fare la Regione Lombardia con un intenso programma di formazione durato due anni. Insomma la colpa è di tutto il sistema e di nessuno. Di certo c’è solo chi ci rimette: l’impresa. E con essa la capacità di un territorio di attrarre investimenti. Le aziende che richiedono l’AUA sono realtà in espansione e che vogliono investire in nuova produzione e nuovo lavoro.
Una situazione paradossale. Tanto più che la Provincia potrebbe comunque controllare a livello telematico quali siano le pratiche bloccate nei vari Sportelli Unici comunali e, con una telefonata, chiedere di accelerare le pratiche. Sarebbe un’azione amministrativa nell’interesse del territorio e della sua capacità di produrre ricchezza, d’altronde. Ma quel controllo e quella telefonata, non essendo dovuti, non vengono fatti.
Risultato: uno sviluppo bloccato da una mera valutazione di forma che subisce uno stop sul nascere. Senza un reale motivo. Perché poi, quando la pratica, dopo varie peripezie, viene sbloccata e, grazie alla sollecitazione dell’associazione imprenditoriale, approda all’esame di merito in Provincia, il via libera definitivo prima o poi, dopo i vari confronti necessari, arriva. Semmai il problema, negli enti provinciali, sta nelle risorse (umane) che vengono messe a disposizione dei dossier. Perché mentre da una parte si parla di abolizione delle Province e, nel frattempo, si riducono le risorse a loro disposizione, dall’altra si aumentano le loro competenze. Fare di più con meno. Anche qui la logica non fa una piega, ma il problema resta. In capo alle aziende. Che chiedono quotidianamente #piùcoraggio. Per dirla come l’imprenditore citato all’inizio di questo articolo: “Oggi avere un permesso di ampliamento di un capannone risulta essere un percorso tortuoso e defatigante con tempi completamente sfasati rispetto a quelli dei mercati, a cui dobbiamo sottostare per rimanere competitivi. Questo il nostro Paese non sembra averlo ancora capito”. Eppure parliamo di nuovi investimenti produttivi da portare avanti nel rispetto delle normative ambientali. Un interesse generale. O no?