Sulle rive del Verbano…di leggenda in leggenda
Seconda puntata del viaggio di Varesefocus tra le leggende del territorio, nello specifico quelle legate ai laghi. La penna dell’europeista convinto Roberto Fassi e i suoi testi, tratti dal blo
Seconda puntata del viaggio di Varesefocus tra le leggende del territorio, nello specifico quelle legate ai laghi. La penna dell’europeista convinto Roberto Fassi e i suoi testi, tratti dal blog “Itinerari nella vecchia Europa”, questa volta ci portano alla scoperta della Rocca di Orino, del martirio di San Gemolo in Valganna, di Sant’Ambrogio e della Torre degli Ariani
Torna l’appuntamento con le millenarie leggende di cui il continente europeo è pregno e che si tramandano da secoli come curiosità turistico-letterarie o come simboli narrativi di località misteriose. E nell’Europa delle leggende, la regione Lombardia, in particolare la sponda orientale del Lago Maggiore, non è certo meno ricca di spunti e meraviglie. E dopo le prime tre storie dedicate alla nascita del lago Delio, ai mercenari della Val Veddasca e alle chiese gemelle di Valtravaglia, ecco altre tre leggende della “sponda magra” del Lago.
I fantasmi della Rocca di Orino
Tanto tempo fa (si dice che fosse il 1500) c’era una truppa di soldati di ventura che risaliva in disordine la Valcuvia. Erano mercenari svizzeri dalle barbe incolte e dalle lunghe alabarde che avevano combattuto senza tregua per tutta l’estate contro quei vanitosi di francesi scesi dalle Alpi. Stanchi di battaglie, ricoperti di molte ferite e di poca gloria, volevano tornarsene nei loro borghi, tra le montagne dei Grigioni o nelle verdi valli di Turgovia e di Argovia, a fumare la pipa e a godersi il bottino di guerra. L’inverno era però alle porte e probabilmente la neve era già signora e padrona dei passi di montagna. La soldataglia procedeva lenta e sfaticata, le donne della truppa si lagnavano di continuo per il mal di schiena e gli scudieri soffrivano di pellagra: fu allora che Marchione Pugnodiferro, il feroce capitano di quella marmaglia, adocchiò una rocca in rovina che emergeva dal fitto bosco nei dintorni del paese di Orino.
Ordinò di porre l’accampamento e di accendere i fuochi. All’interno di quelle mura diroccate avrebbero trascorso l’inverno, al sicuro dal minaccioso esercito di Francia, con acqua, legna e selvaggina abbondante a portata di mano. L’inverno fu lungo e freddo come al solito. E noioso. E quando i soldati stanno con le mani in mano sono anche più pericolosi di quando menano le mani. Era dunque gennaio quando per l’accampamento si sparse la voce che Ada, la giovane e soave moglie dell’irascibile Marchione, tradiva il marito con un paio di bellimbusti del canton di Turgovia. Marchione non pensò affatto che la colpa potesse essere di quelle notti così gelide e, in un accesso d’ira, tagliò la gola a quei due giovani armigeri che, a parer suo, erano stati troppo intraprendenti. Poi prese per il collo la soave Ada e la scaraventò giù per il pozzo che stava da secoli in mezzo alla corte della rocca. Infine, non ancora pago, se la prese anche con i parenti: chi ne fece le spese fu Francesco, suo luogotenente e, purtroppo per lui, fratello di Ada. Nonostante le sue disperate proteste, Francesco fu imprigionato nel torrione della rocca che aveva porte robuste e inferriate alle finestre.
“E chiudete a doppia mandata!” sbraitò Marchione Pugnodiferro.
Venne il tempo di partire per il Nord e Francesco fu abbandonato nella sua prigione, destinato ad una lunga agonia. Non si ebbero più notizie di Marchione, il collerico, né si sa se il suo carattere si addolcì quando, di lì a poco, grazie ai semi di cacao provenienti dal nuovo mondo, i mercenari svizzeri cominciarono a mangiare cioccolato dolce a tutto spiano. Tutti gli inverni, invece, si hanno notizie, anche se incerte e un po’ confuse, di quelle due anime perdute di Ada e Francesco: si dice che i loro fantasmi corrano da secoli lungo le mura della rocca e che, nelle fredde notti senza luna, bisbiglino la loro leggenda a chi ha il coraggio di avventurarsi su per i boschi della Valcuvia.
Il martirio di San Gemolo in Valganna
Tanto tempo fa (si dice che fosse circa l’anno Mille) c’era una carovana di pellegrini che transitava lenta e devota sul ponte di legno gettato sul fiume Tresa. Erano pellegrini che venivano dalla terra dei Germani, o forse dei loro cugini, i Goti, o fors’anche di quegli altri lontani parenti, i Burgundi. Avevano valicato i passi alpini allo sciogliersi delle nevi e chissà se avevano scelto il valico del San Bernardino o il più aspro San Gottardo o il più angusto passo del Lucomagno. A valle c’erano comunque arrivati, in quel contado di laghi e di ladri: allora, infatti, bande di briganti infestavano i monti sopra Milano, in cerca di facili bottini da strappare alle comitive di viandanti che, passo passo, dall’Europa del Nord cercavano di raggiungere Roma, città eterna, caput mundi e dimora millenaria del Buon Pastore. Passo passo i pellegrini di Germania salivano dunque per i boschi della Valmarchirolo. Li guidava un vecchio vescovo in odor di santità che aveva condotto con sé un manipolo di giovani scalpitanti, pieni di fervore religioso e di smania di avventure. Tra di essi c’era Gemolo che, oltre a essere ardito e scalpitante, era pure nipote del buon vescovo. Sopraggiunta la notte (una delle tante in quel lungo cammino), gli stanchi viaggiatori posero il bivacco all’imbocco della Valganna, terra di ruscelli e di chiari specchi di palude. Occhi furtivi, celati nella boscaglia, spiavano quei pellegrini affaticati e quando tutto fu silenzio e il sonno prese possesso dell’accampamento, certi ceffi da galera sbucarono quatti quatti dalla selva oscura e fecero man bassa di cibo, ori e tesori destinati al Papa di Roma. Ma l’ultimo di quei manigoldi era grasso e un po’ impacciato e teneva sottobraccio due grossi sacchi di mercanzia rubata: nell’oscurità inciampò nel pentolame abbandonato sulla cenere del bivacco e ruppe il silenzio della notte. A quel frastuono improvviso, i suoi compagni di ventura afferrarono svelti i fardelli col bottino e si dileguarono verso il bosco nero e protettivo. Anche Gemolo si levò di soprassalto e, scambiata un’occhiata d’intesa col suo amico Imerio, si gettò con lui all’inseguimento di quei briganti fracassoni. Che non erano solo rumorosi e violenti, ma anche vili e feroci. Appena si resero conto che gli inseguitori erano solo due, frenarono la loro fuga e tesero un’imboscata ai due inesperti cavalieri venuti dal Nord. Là dove il ruscello Margorabbia si apriva un varco tra gli alberi del bosco, Gemolo e Imerio furono circondati dai briganti e uccisi senza pietà. Alle prime luci dell’alba, il vecchio vescovo e i suoi compagni di viaggio li ritrovarono riversi sulle sponde del torrente, coperti dall’ultima, pietosa brina di stagione. Gemolo fu sepolto ai margini di quelle terre palustri, nel luogo dove più tardi sarebbe stata eretta la badìa di Ganna.
Sant’Ambrogio e la Torre degli Ariani
Tanto tempo fa (si dice che fosse il 400 d.C.) c’era un piccolo monte con vista sui laghi della Lombardia e, nelle giornate di vento impetuoso, con vista anche sulla città di Milano, una delle più grandi e famose città dell’Impero Romano d’Occidente. Sui versanti meridionali della montagna stava invece un modesto paese chiamato Velate e, considerato che anche a quel tempo la geografia cercava di essere una cosa precisa, la montagna in questione fu detta “monte sopra Velate”.
In quel periodo la Lombardia e tutti i territori dell’impero erano percorsi da mille idee religiose e nessuno sapeva con esattezza quale fosse la migliore. Tra gli stessi cristiani c’erano, per esempio, i seguaci del prete Ario che consideravano Gesù come un grand’uomo, ma certo non come un Dio.
Scacciati dalle grandi città perché considerati eretici, gli Ariani se ne andarono raminghi e per un po’ misero su casa proprio alle pendici del monte sopra Velate. Un giorno, alle falde della montagna, giunse Ambrogio, che era vescovo di Milano ed era anche uno che non la faceva passar liscia agli eretici che si lasciavano abbindolare da strane idee. Chiamati a raccolta i suoi soldati, il vescovo Ambrogio diede l’assalto alla montagna e, dopo una serie di scontri militari, mise in fuga quei testardi di Ariani che si dispersero negli scuri boschi del Nord. Si racconta che, dopo la battaglia, ad Ambrogio apparve per un breve momento l’immagine della Madonna che s’aggirava nei paraggi. Il vescovo interpretò quell’apparizione come un segno di benevolenza e di approvazione per aver cacciato gli eretici. Era un avvenimento speciale, così speciale che il vescovo ordinò subito di porre un altare di pietra grezza in quel luogo per celebrare l’evento e confermare la sacralità di quella montagna.
Anche lo stesso Ambrogio era un uomo speciale e divenne infatti sant’Ambrogio, patrono di Milano e della Lombardia. Degli Ariani si persero le tracce perché i boschi in cui fuggirono erano davvero molto scuri: della loro presenza sulla montagna pare sia rimasta solo una vecchia torre cocciuta e squadrata. Il monte sopra Velate ebbe invece un destino radioso perché, nel giro di un millennio o poco più, diventò il più panoramico Sacro Monte d’Europa. Come sempre, con vista sui laghi e sulla metropoli di Milano. O magari, per chi non è uomo di poca fede, con possibilità di vedere anche più in là.
“Itinerario leggendario sulle rive del Verbano” è uno dei viaggi, corredati di testi e fotografie, consultabili gratuitamente sul sito www.viaggivecchiaeuropa.wordpress.com. Sul prossimo numero di Varesefocus, in edicola a dicembre, nuove leggende e nuove storie con la terza e ultima puntata.